L’Uomo di Plastica

Sin dai tempi più antichi, l’essere umano ha modellato le materie prime -come la creta e l’argilla- per creare manufatti nella forma desiderata. Con il passare dei secoli e con l’acquisizione di tecniche scientifiche e tecnologiche, i materiali utilizzati sono ovviamente aumentati e variati, così come le conseguenze in termini di “impatto”, sull’ambiente e nella stessa società. Questo percorso tecnico ed evolutivo, tuttavia, non è stato sempre costante: basti pensare che, per millenni, i materiali utilizzabili a tale scopo sono sempre stati limitati al legno, ai metalli ed alle sopracitate argille. Le rivoluzioni industriali ricoprono in tal senso un’importanza fondamentale, avendo gettato i presupposti per l’utilizzo di tecniche e di materie prime ancora oggi predominanti: una su tutte, sicuramente la più conosciuta e tutt’ora utilizzata, è la plastica.

UN PO’ DI STORIA:

Intorno alla metà del 1700, dopo vari cambiamenti politici, economici e culturali, un’ondata di nuovi bisogni si presenta nella società civile. La domanda di beni diventa più differenziata e l’industria cresce in modo esponenziale in tutto il globo: di conseguenza, la produzione prende ritmi molto diversi rispetto al lontano neolitico. Molti materiali di origine “naturale” necessari per la fabbricazione di merci –l’avorio in primis- vengono sostituiti da materiali artificiali, per via degli elevati costi di produzione. Questa tendenza spiana la strada all’invenzione della plastica, avvenuta pochi anni dopo: è il 1835 quando, durante una serie di esperimenti, il chimico francese H.V. Regnault ottiene il PVC, una resina molto rigida. Per la precisione, una resina termoplastica, che si indebolisce cioè con il calore, ma una volta raffreddata conserva la sua forma. Gli utilizzi di questo materiale diventano presto innumerevoli: modellato per l’edilizia, cavi elettrici, finestre, dischi ed anche tessuti. È solo il primo passo.
Nel 1862, l’inventore Alexander Parkes, studiando il nitrato di cellulosa, brevetta il primo materiale plastico semisintetico, che chiama Parkesine.
La parkesine contiene un elemento essenziale per modellare i materiali: la plasticità. Difatti è modellabile, trasparente e conserva meglio la sua forma dopo il raffreddamento. Questo materiale è considerato il primo tipo di plastica artificiale, utilizzato agli albori per la produzione di scatole e manici o di manufatti flessibili come i colletti delle camicie.
La diffusione della plastica si intensifica quindi alla fine del 1860, quando l’americano John Hyatt brevetta la formula della celluloide, un materiale costituito da canfora (una cera presente in natura), azoto e cellulosa. L’idea nasce per sostituire il costoso e sempre più raro avorio nella produzione di palle da biliardo: per assurdo, è la prima invenzione “green” della storia, pensata in origine con lo scopo di essere resistente all’usura e durare quindi a lungo nel tempo. Dopo la scoperta, questo materiale si diffonde immediatamente, iniziando ad essere utilizzato dai dentisti per le impronte dentarie, ma anche per la creazione di oggetti comuni, come i pettini e le ciotole. La plastica, quindi, diventa in breve il centro di molti studi: le ricerche in ambito continuano senza sosta.
Il ‘900 diventa il secolo della plastica: durante la seconda guerra mondiale nasce una vera e propria industria moderna, che usa ora il petrolio come principale materia prima. Le scoperte si susseguono: nel 1905, il chimico Leo Baekeland ottiene -tramite condensazione tra fenolo e formaldeide- la Bachelite, ovvero la prima resina termoindurente di origine sintetica, cioè la prima plastica che si indurisce in relazione al calore; nel 1935, Wallace Carothers sintetizza il primo nylon (una delle resine sintetiche più usate dal dopoguerra, dai collant ai paracaduti militari), aprendo la strada all’utilizzo delle fibre sintetiche; nel 1941, Rex Whinfield James Tennant Dickson brevettano il polietilene tereftalato (PET) e nel 1973 Nathaniel Wyeth modella il PET per creare contenitori per le bevande. Ancora oggi, nel 66% dei casi questo materiale viene utilizzato per costruire bottiglie o per contenere cibi.

nylon plastica
Una gamba (e una calza) di oltre 10metri esposta a Los Angeles nel 1935 per pubblicizzare il Nylon.

IL BOOM DELLA PLASTICA:

Dopo la seconda guerra mondiale, le scoperte nate per scopi bellici vengono applicate in altre funzioni. Nel 1954 l’ingegnere chimico italiano Giulio Natta scopre il polipropilene.
Per merito di questa invenzione vince nel 1963 il Premio Nobel insieme al tedesco Karl Ziegler, che l’anno precedente aveva isolato il polietilene.
Il polipropilene prodotto industrialmente dal 1957 con il marchio “Moplen” diviene il simbolo del “boom economico” e dell’industria della plastica: molti oggetti di uso quotidiano, come lo scolapasta o i contenitori per alimenti, sono composti da polipropilene. I diversi tipi di plastica ed i manufatti che ne derivano diventano oggetti culturali che rappresentano la nuova cultura dominante dell’essere umano.
“Economica, versatile, leggera”: erano queste le caratteristiche essenziali della plastica, che viaggiavano nella stessa direzione del boom economico degli anni ’50 e ’60.
Il diffuso benessere economico fondato sul capitalismo industriale ha cambiato il volto della struttura sociale, che diventa sempre più una società dei consumi. Il sistema di consumo che è emerso è però basato principalmente sul modello “usa e getta”, riferito ad oggetti di uso comune che, a differenza del passato, vengono ora utilizzati solo una volta e poi gettati. Per la maggior parte dei casi, i prodotti di plastica (come le bottiglie) iniziano ad essere oggetti monouso, generando in pochissimo un’onda di rifiuti non biodegradabili.
Uno degli aspetti più nocivi della plastica deriva dal fatto che il Pianeta non riesce a smaltirla, poiché è un materiale artificiale. Tale tipo di inquinamento intacca il suolo, l’aria, i fiumi, gli oceani ed il nutrimento degli animali, compresi gli esseri umani. La quantità di plastica presente sia nel regno terrestre che in quello marino è un indicatore geologico chiave che caratterizza l’Antropocene, la nuova epoca geologica.

fiume di plastica bangladesh
Fiume Buriganda, Bangladesh (Ph: Randy Olson)

Tracce indelebili dovute alla presenza di questo materiale sono state trovate persino nelle rocce, come dichiara uno studio del WWF. Nel report viene dimostrato come la plastica sia assorbita dalle rocce litoranee e, di conseguenza, sia destinata a restare negli strati geologici nei prossimi millenni.
Considerando che un sacchetto di plastica impiega dai 10 ai 30 anni per degradarsi e che dal 1950 al 2015 sono stati generati un totale di 6,3 miliardi di tonnellate di rifiuti di plastica, sarebbe quasi impossibile prevedere esattamente l’enorme inquinamento generato nell’ultimo secolo e la devastante distruzione ambientale. Sebbene vi sia una crescente enfasi sulla sostituzione delle plastiche derivate dal petrolio con le bioplastiche, sono sorte delle discussioni su quanto siano realmente biodegradabili nell’ambiente. Infatti, secondo la normativa europea, un contenitore è biodegradabile se si decompone al 90%: questo fa intendere che il restante 10% rimane sulla Terra. Inoltre, uno studio pubblicato su Environmental Science and Technology mostra che persino i sacchetti biodegradabili conservano una struttura intatta per anni: altro che bio, verrebbe da dire.

UN MARE DI PLASTICA

I detriti di plastica nell’ambiente marino sono ampiamente documentati, ma la quantità di plastica che viene gettata negli oceani può essere solo stimata. Nel 1997 il marinaio Charles Moore scoprì una gigantesca massa galleggiate di rifiuti nell’Oceano Pacifico, un nuovo continente fatto di spazzatura oggi chiamato Great Pacific Garbage Pat. Oggi sappiamo che le tonnellate di rifiuti marini, con la forza delle correnti, si accumulano in zone specifiche creando le cosiddette isole di plastica. Una ricerca pubblicata su Science Advances dimostra che dagli anni ’40 del Novecento ad oggi, la concentrazione di residui di plastica nell’oceano è raddoppiata ogni 15 anni.

isola plastica pacifico
Foto da satellite dell’isola di plastica nell’Oceano Pacifico

Secondo gli scienziati che hanno guidato la ricerca -un team di esperti della Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California- dopo l’età del bronzo e del ferro siamo entrati nell’età della plastica. Nel mondo, le isole di plastica che hanno raggiunto dimensioni enormi sono sei: quella dell’oceano Pacifico, nel mar dei Sargassi, nel circolo polare artico, nell’oceano Indiano e nell’oceano Atlantico. Queste isole sono composte principalmente da frammenti microscopici di plastica che si disperdono fino al fondo degli oceani: 6,4 milioni di tonnellate di rifiuti entrano negli oceani e i macro-rifiuti galleggianti di plastica si frammentano a loro volta in microplastiche, le cui fonti originarie sono principalmente bottiglie di plastica, contenitori del cibo, reti da pesca, pellicole, posate e bicchieri.  Questi piccoli frammenti si confondo con il plancton, vitale per la catena alimentare negli ecosistemi marini e, di conseguenza, migliaia di animali vengono uccisi da oggetti di plastica di cui si nutrono o da cui rimangono intrappolati: i rifiuti marini, composti in prevalenza da plastica, minacciano la sopravvivenza di oltre 800 specie animali.

animali plastica
(Ph: Chris Jordan)

LA PLASTICA È NEL CIBO

Anche l’uomo mangia plastica, come rileva un recente studio condotto dal WWF Australia, intitolato “No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestion from Nature to People”.
Ingeriamo fino a 2000 minuscoli frammenti per settimana, che corrispondono a circa 5 grammi: l’equivalente in peso di una carta di credito. Queste micro quantità vengono assunte principalmente dall’acqua bevuta sia dalla bottiglia che dal rubinetto. Inoltre, questo avviene anche quando ingeriamo frutti di mare, pesce, birra e sale, perchè sono alimenti che contengono alti livelli di microplastica. Una singola persona può assumere in una settimana circa 1769 particelle di plastica solo bevendo acqua e 2mila ingerendo sale da cucina. Inoltre, molti alimenti che consumiamo sono imballati con questo materiale, che contamina il cibo con sostanze nocive: uno studio francese ha dimostrato che il caffè in capsule contiene sostanze chimiche potenzialmente dannose come cobalto, cromo e acrilamide.


No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestion from Nature to People .

Nessun posto è al sicuro dall’inquinamento da plastica, anche le aree più isolate oramai accumulano particelle di microplastica. Migliaia di tonnellate di questi rifiuti stanno letteralmente piovendo su aree protette, come spiega lo studio pubblicato dalla rivista scientifica Science. I ricercatori, dopo aver registrato nel corso di 14 mesi le precipitazioni in una serie di zone potette degli Stati Uniti, hanno dimostrato che mille tonnellate di nanoplastiche sono cadute insieme alla pioggia. Le particelle più grandi vengono veicolate attraverso la pioggia e la neve, quelle più piccole sono trasportate da vento, arrivando anche da regioni geograficamente lontane.
Il problema dei rifiuti di plastica, in parte, si cerca di affrontare sensibilizzando sempre più persone e cercando nuove soluzioni. Molti Paesi stanno mettendo al bando gli imballaggi usa e getta: nel 2019 il parlamento europeo ha vietato entro il 2021 l’utilizzo di posate monouso, Cotton fioc, cannucce e mescolatori. Diventa sempre più necessario riconvertire il nostro stile di vita: oggi sappiamo che, senza un’efficace intervento, prima della metà del secolo i rifiuti di plastica potrebbero superare per peso i pesci presente nel mare e, via via, molti paesaggi ed esseri viventi potrebbero estinguersi lasciando spazio a montagne di pattume.

“Era un tempo in cui i più semplici cibi racchiudevano minacce, insidie e frodi,
Non c’era giorno in cui qualche giornale non parlasse di scoperte spaventose nella spesa del mercato: il formaggio era fatto di materia plastica, il burro con le candele steariche, nella frutta e verdura l’arsenico degli insetticidi era concentrato in percentuali più forti che non le vitamine, i polli per ingrassarli li imbottivano di certe pillole sintetiche che potevano trasformare in pollo chi ne mangiava un cosciotto. Il pesce fresco era stato pescato l’anno scorso in Islanda e gli truccavano gli occhi perché sembrasse di ieri . Da certe bottiglie di latte era saltato fuori un sorcio, non si sa se vivo o morto. Da quelle d’olio non colava il dorato succo d’oliva, ma grasso di vecchi muli, opportunamente distillato.
Marcovaldo al lavoro o al caffè ascoltava raccontare queste cose e ogni volta sentiva come il calcio d’un mulo nello stomaco, o il correre d’un topo per l’esofago.”

Italo Calvino

l'uomo di plastica
Artwork: La Cirasa

McMay