L’altra faccia della pandemia

Se qualcuno, munito di una palla di vetro magica, avesse provato a tracciare delle previsioni per il 2020, probabilmente avrebbe steccato di brutto. Infatti, l’anno uscente è stato un turbinio di eventi inediti, che porteranno con loro degli strascichi duri a morire. L’assurdità della situazione che oggi viviamo ha imposto un ribaltamento degli stili di vita, il che di per sé sarebbe auspicabile. Peccato che questo ridimensionamento non abbia fatto altro che acuire le differenze sociali tra le classi e, ancora una volta, abbia danneggiato la parte della popolazione più debole economicamente e svantaggiata socialmente. Non solo la pandemia mondiale ha portato con sé delle vittime innocenti di cui c’è da rammaricarsi, ma ha anche smascherato una serie di problematiche latenti che, in realtà, sono le caratteristiche principali del sistema nel quale viviamo.
In particolare nella seconda parte dell’anno, in svariate nazioni nel mondo, alcuni movimenti di piazza sono cresciuti ed insorti contro i corrispettivi “poteri forti” locali -tra cui le derive politiche autoritarie e le grandi multinazionali- al fine di ribadire una definitiva quanto comune volontà di cambiamento. Una delle teste in pericolo, ad esempio, è quella di Aljaksandr Lukašėnko in Bielorussia: Lukašėnko ha prima sfruttato l’emergenza sanitaria per farsi rieleggere per l’ennesima volta e consolidare il proprio potere tramite brogli elettorali, per poi assumere posizioni “negazioniste” sulla questione Coronavirus, affermando che, per curarsi dal Covid, basterebbero “vodka, sauna e hockey”. Tutto ciò ha innescato la miccia di una vera e propria rivolta popolare: sono infatti ormai passati mesi da quando il popolo bielorusso ha iniziato la sua protesta contro questo potere assoluto, ma purtroppo la lotta è resa ancora più complicata dalla violenta repressione poliziesca, che da altrettanti mesi continua a mietere vittime. L’ultimo manifestante ucciso si chiamava Raman Bandarenka ed è morto nell’ospedale di Minsk, dopo essere stato pestato in questura mentre era in arresto. 

(ph: Tanuzzo Supertramp)

La mentalità ultraconservatrice di dittatori come Lukašėnko non è sicuramente esclusiva della nazione Bielorussia, si intenda. Prendiamo la Polonia: Andrzej Duda e il partito conservatore di maggioranza PiS (Diritto e giustizia) negli ultimi mesi hanno fortemente promosso l’introduzione di un emendamento che renderebbe ancora più difficile per le donne in gravidanza ottenere l’aborto, persino in caso di malformazioni. Il divieto riguardante questa pratica, che in Polonia era già strettamente limitata a tre casi -pericolo di vita per la madre, stupro e grave malformazione del feto- ora si estenderebbe praticamente alla totalità delle condizioni. Un gran numero di donne si è quindi riversato in strada, per reclamare il diritto di decidere riguardo il proprio corpo e la propria vita, ritardando di fatto l’introduzione del nuovo emendamento. La politica restrittiva del PiS resta infatti solamente un retaggio religioso, in quanto molte donne continuano ad abortire clandestinamente, ma sono costrette a pagare cifre esorbitanti, finanziando la criminalità organizzata e correndo rischi enormi dal punto di vista sanitario.
Le cose non sono diverse oltreoceano, in particolare in Messico dove, oltre ai tabù legati a questa pratica, si riscontra un elevato tasso di femminicidi -circa dieci al giorno- che hanno spinto le donne messicane a scendere in piazza. Anche qui, le manifestanti hanno ricevuto una reazione violenta da parte degli agenti, che hanno sparato contro la folla provocando vari feriti, per poi sequestrare ogni tipo di testimonianza raccolta dai giornalisti. Così come sono stati violentemente repressi i manifestanti di Extinction Rebellion in Repubblica Ceca, impegnati in una delle lotte più importanti di questo periodo storico, quella legata alla causa ambientale: un problema che tutti ormai riconoscono, ma che in pochi vogliono veramente risolvere, forse perché sono in pochi quelli che si focalizzano sulla radice del problema, ovvero il sistema economico vigente. Nel caso ceco, ad esempio, il tiranno mandante delle violenze -nonché primo ministro- Andrej Babiš è infatti un magnate che, per sua stessa affermazione, sta tentando di “dirigere uno Stato come un’azienda”. E’ il fondatore di una compagnia petrolchimica altamente inquinante che controlla tutta l’agricoltura e la produzione alimentare del Paese e, come se non bastasse, possiede anche due testate giornalistiche di rilievo e la più nota emittente radio. Questo incrocio di interessi politici, economici e mediatici permette a Babiš di alimentare il suo profitto e di consolidare la propria posizione di potere, attraverso una propaganda becera che si appropria di virtù eco-sostenibili per coprire le azioni omicide nei confronti del pianeta: in altre parole, Greenwashing.
Stiamo parlando della stessa retorica nota e adottata da molte aziende di settore, tra cui l’italianissima Eni, che si fregia di bellissime pubblicità mandate in televisione e affisse per strada, ma in realtà è responsabile di vari crimini contro l’umanità e l’ambiente. Anche in Italia, un Paese in cui le derive autoritarie appaiono scongiurate per il momento, la vera repressione viene attuata in maniera filtrata, attraverso i media commerciali e le pubblicità, che orientano il dibattito pubblico e indirizzano gli acquisti. Ciò nonostante, la pandemia di Covid in corso ha inevitabilmente riaperto il dibattito su una serie di tematiche su cui si è sempre scelto di chiudere un occhio, a partire proprio da quella ambientale.

(ph: Tanuzzo Supertramp)

Una lotta che sta ricevendo pochissimo riscontro mediatico nonostante sia di importanza cruciale per l’intero pianeta è proprio quella contro il colosso petrolifero rappresentato da Eni, un’azienda che millanta virtuosismi ecologici per attirare il favore dei clienti quando, in realtà, è una delle più grandi emettitrici di CO2 al mondo, la prima in Italia. Emissioni che continueranno ad aumentare, se si considera che la multinazionale ha varato un piano decennale in cui implementerà le estrazioni fossili e destinerà a queste il 70% dei propri investimenti (contro l’8% destinato alle risorse rinnovabili). Investimenti che, stavolta, non provengono dalle tasche di un ricco magnate al potere, bensì direttamente dallo Stato italiano, entusiasta azionista di maggioranza di Eni. A dimostrazione di come il problema non derivi solamente da qualche uomo cattivo sparso per il mondo, ma sia una connotazione intrinseca del sistema attuale.
Tuttavia, la speranza in un futuro migliore ha portato molti ragazzi a scendere in strada per opporsi alle bugie dello Stato. È quanto sta accadendo, ad esempio, a Venezia, dove il movimento Rise Up 4 Climate Justice protesta contro una neonata raffineria di biodiesel. Una lotta ardua, che mette in conto difficoltà, conseguenze e ostacoli imposti non solo, come era prevedibile, dalla polizia (che ha infatti recentemente fatto irruzione nella sede del CS Rivolta, facendo piovere arresti e multe e dimostrandosi ancora una volta alla totale dipendenza dei poteri sporchi), ma anche dalla potenza retorica del greenwashing, dall’ignoranza e dal qualunquismo dei media, che fanno sì che l’attenzione su queste vicende si mantenga minima. Anche Extinction Rebellion ha protestato contro la multinazionale italiana attraverso un flash mob, durato 55 ore, davanti alla sede di Eni a Roma. Il risultato? Piogge di multe e di denunce sugli attivisti accorsi, perché “non rispettavano il distanziamento sociale”.
La pandemia mondiale e le relative misure annesse e connesse vengono sfruttate come ennesimo mezzo per la repressione del dissenso, un dissenso che non può tuttavia essere più sottaciuto. Eni è accusata dalla commissione sui Diritti Umani di violazione dei diritti fondamentali e disastro ambientale, oltre ad essere stata denunciata per pubblicità ingannevole: cosa aspettiamo a salvaguardare l’ambiente, piuttosto che salvaguardare un sistema economico che punta sull’accumulo illimitato di ricchezze a discapito di qualsiasi altro valore?

(ph: Tanuzzo Supertramp)

Questo sistema viene propagandato come l’unico possibile e indispensabile, ma è collassato definitivamente dopo l’avvento della pandemia, non essendo in grado di garantire tutele sanitarie di base per tutti. Un sistema che punta sulla sicurezza economica e materiale, ma poi non è in grado di sfamare circa un miliardo di persone al mondo, né di assicurare loro un tetto sulla testa. Un sistema che viene tenuto su da pochi ricchi e benestanti che ignorano -o preferiscono ignorare- le malattie che ne derivano. Malattie sociali, chiaramente, ma anche fisiche.
Qualche mese fa, in un approfondimento avevamo parlato del perché il Coronavirus altro non fosse che una conseguenza del disastro ambientale verso cui questo sistema sta inevitabilmente spingendo: andando oltre la pandemia, possiamo affermare che la nostra salute era già a rischio prima di essa e lo sarà per molto tempo in futuro, a meno che non si verifichi un cambiamento radicale nello stile di vita e nella mentalità collettiva. In primis dovremmo affrontare il discorso “alimentazione”, il primo fattore che determina lo stato di salute di una persona. I
prodotti che la maggior parte della popolazione mondiale consuma sono infatti privi di controllo, sia da parte dei fornitori che da parte del cliente, che talvolta cede al ricatto del “se rinunci alla qualità puoi avere un prezzo ridotto”. Un ricatto celato, dal momento che una grande mole di famiglie fatica ad arrivare a fine mese, ritrovandosi costretta ad accettare il compromesso del sottocosto, del discount o del fast food.
Quel tipo di prodotti, così come la maggior parte di quelli acquistabili in un supermercato, provengono dalla filiera agricola industriale, che prevede un uso intensivo di tutti i mezzi di produzione. Quante volte avrete sentito di alimenti ritirati dal mercato perché contenenti materiali dannosi? E chissà quanti altri sono ancora sul mercato che provocano malattie più o meno gravi. Tutto ciò deriva da fattori caratteristici della produzione industriale, quali l’eccessiva meccanizzazione, l’aggiunta di additivi esterni di tipo chimico, la mancanza di cura relativa all’allevamento e/o alla lavorazione. Questo è cruciale per la nostra salute, ma a nessuno sembra importare più di tanto. Probabilmente perché il capitalismo gioca molto sul comfort, sulla sensazione di comodità che recano determinati servizi -come i supermercati e i fast-food- così da oscurare tutto il marcio che c’è dietro. Tuttavia, per chi non fosse troppo pigro, la soluzione esiste e si chiama autoproduzione! Ma eviterò, almeno qui, di addentrarmi in questo discorso, tanto importante quanto delicato.
Esiste infatti un’ulteriore soluzione in merito, molto più accessibile sia per logistica che per portafoglio: i mercati contadini. A Bologna, ad esempio, c’è un’associazione chiamata Campi Aperti, che si sposta in vari luoghi della città per vendere cibo a chilometro zero, controllato e naturale, a prezzi popolari. Recentemente, questo gruppo di cittadini e agricoltori ha vinto una battaglia importante contro l’amministrazione comunale che, a causa della pandemia, aveva deciso di lasciare aperti solamente i supermercati, a discapito dei mercati locali. Una protesta che è riuscita a raggiungere il proprio obiettivo e che ha ribadito un’importante necessità: quella di lottare per una sovranità alimentare, che tolga il cibo dalle mani delle multinazionali e lo riconsegni alla popolazione.
Oltre a danneggiare la salute personale e collettiva, la filiera industriale contribuisce ad altri fenomeni molto gravi: lo sfruttamento di animali e lavoratori e l’elevato tasso di inquinamento. Per quanto riguarda quest’ultimo, il modello agricolo industriale è responsabile in maniera rilevante delle emissioni di gas serra, spreca risorse non rinnovabili, impoverisce i territori e crea squilibri sociali senza riuscire al contempo a nutrire il mondo in modo sufficiente e adeguato. Inoltre, contribuisce alla distruzione del pianeta e all’intossicazione alimentare collettiva, alimentando lo sfruttamento sistematico di miliardi di animali che vengono torturati e denutriti. Tutto ciò è figlio della stessa identica logica, che tiene in piedi il sistema stesso: mettere il guadagno economico al di sopra di tutto il resto. Stessa logica che d’altronde favorisce lo sfruttamento del lavoro bracciantile persino con modalità “legali”, senza alcuna tutela né diritto per i lavoratori, ma tutto a guadagno delle grandi multinazionali che, come in un teatrino, muovono i fili di questo continuo ricatto alla popolazione.

(ph: Margherita Caprilli)

Un ricatto a cui sono sottoposti ormai da tempo anche i riders, che recentemente sono tornati a protestare, popolando le piazze bolognesi assieme alla neonata Riders Union Bologna: un’associazione che si è assunta il compito di tutelare per davvero i diritti di questa categoria, a differenza dei sindacati come l’UGL e le associazioni di categoria come Assodelivery. Proprio in seguito ad un accordo tra questi ultimi due gruppi è infatti entrato in vigore un “contratto collettivo nazionale” fortemente criticato, che non garantisce ai riders alcun tipo di diritto o tutela.
Eppure i riders sono una delle poche categorie che ha sempre lavorato (e continua a farlo) anche in orari proibitivi, esponendosi a molti dei rischi derivanti da questa pandemia, sulla quale le grandi aziende di delivery si sono intanto sproporzionatamente arricchite proprio grazie a quei lavoratori che sottopaga e sfrutta.
Insieme ai riders sono scese in piazza anche altre categorie sociali, tutte accomunate dal fatto di essere state pesantemente svantaggiate dal Covid. Ne sono un esempio i lavoratori dello spettacolo: priva
di qualsiasi tipo di tutela economica, i problemi di questa categoria sono stati più volte minimizzati durante le scelte fatte nella gestione dell’emergenza, a partire dallo stesso premier Conte, che parlava di “quegli artisti che ci fanno tanto ridere”. Anche l’opinione pubblica non ha fatto eccezione, dato che sembrava avere scoperto da poco che dietro agli spettacoli teatrali, alle produzioni cinematografiche e alle esposizioni museali ci siano delle persone che lavorano e che traggono il proprio sostentamento da quel lavoro. Il mondo dell’arte è stato lasciato completamente ai margini: la massima urgenza è stata data alla chiusura di cinema, teatri e musei, mentre il virus continuava a diffondersi nelle metropolitane e sugli autobus affollati, nelle fabbriche e nei centri commerciali. Le vicende dei lavoratori dello spettacolo -così come quelle dei riders- sono accomunate dalla volontà di ribaltare i pregiudizi e la degradazione a cui queste categorie sono andate incontro sin dall’inizio dell’emergenza sanitaria (ma probabilmente anche da prima). Come abbiamo visto per le altre situazioni occorse in Italia e nel mondo, la responsabilità non è tanto della pandemia (che di per sé è un evento, una contingenza) bensì della gestione che ne è stata fatta. Quest’ultima rivela aspetti preoccupanti e caratteristici del sistema in cui viviamo, come lo sfruttamento compiuto dalle grandi multinazionali nei confronti delle categorie sociali più deboli economicamente: mentre Justeat e Netflix (tanto per citarne due) si sono arricchite in maniera sproporzionata durante la pandemia, i lavoratori che hanno prodotto questa ricchezza si sono ritrovati senza diritti né tutele.

Sono queste alcune delle motivazioni che hanno spinto persone di ogni età a scendere in piazza da Torino a Milano, da Napoli a Roma, passando per Bologna. Qui, a differenza di altre città, non si sono registrati scontri, eppure è bastata un’incursione dei manifestanti nel salotto chic dello shopping cittadino per suscitare la violenza della polizia che, manganelli alla mano, ha atterrato ed arrestato due ragazzi. Lo slogan dei manifestanti è comune in tutte le città, oltre ad essere molto chiaro e conciso: “Dateci i soldi, Paghino i ricchi”. In altre parole: siamo stanchi che le grandi aziende si arricchiscano sulle spalle dei propri lavoratori, che invece non arrivano a fine mese.
La differenza profonda che esiste nell’attuale distribuzione delle ricchezze mondiali è un dato vergognoso per l’umanità intera, che vede da una parte i grossi tycoon corrotti e gongolanti nel lusso più esasperato, dall’altra intere popolazioni emarginate, che soffrono la fame e non hanno una casa. Questa situazione è un aspetto caratterizzante del sistema capitalista, che punta sull’accumulo di ricchezze monetarie, ma non provvede ad alcuna redistribuzione equa. Un aspetto divenuto lampante per tutti durante la pandemia.
Un possibile “tampone” potrebbe essere la tassa patrimoniale: uno strumento fiscale che andrebbe a detrarre un’aliquota dal patrimonio dei più ricchi, per generare un gettito economico necessario a sanare l’emergenza. Non sarà la panacea di tutti i mali, ma -se applicata con criterio- porterebbe “ossigeno” a chi è stato fortemente colpito dall’attuale crisi. In Italia la patrimoniale sembra un tabù, un qualcosa destinato a rimanere tra le “utopie di sinistra”, ma non è così ovunque: il governo spagnolo ha da poco approvato un’imposta dell’1% per i patrimoni superiori ai 10 milioni di euro. Una misura analoga, in terra nostrana, significherebbe un gettito fiscale da circa 10 miliardi di euro che, se spesi bene, porterebbero a delle misure di welfare per tutti coloro che sono in situazioni di disagio socio-economico. Tuttavia, così come il caso dei rider insegna, questo sistema ha bisogno di preservare la povertà per poter preservare la ricchezza, quindi pare che la soluzione sia da ricercare al di fuori di esso.

(ph: Grazia Perrilli)

Nonostante la propaganda mediatica e le dichiarazioni di facciata, il capitalismo è un sistema che non nutre il minimo interesse nel risolvere le problematiche della repressione, della povertà, dell’inquinamento e dello sfruttamento lavorativo, in quanto sono tutte derive necessarie al proprio sostentamento. Per questo motivo, per quanto diversi, tutti gli eventi sciorinati fin qui sono legati tra loro, perché sono legate le cause che li hanno provocati. Quando parliamo di cambiamento sistemico, infatti, non si sta parlando di un problema specifico, bensì di un qualcosa di molto grande, che comprende tutta una serie di tematiche. Bisognerebbe arrivare a questa consapevolezza per evitare di disperdere le forze in maniera settoriale, per unirsi piuttosto tutti sotto un’unica, grande necessità di cambiamento. A partire dall’abbattimento di ogni tarlo repressivo e dittatoriale, che prende forma in maniere diverse nelle varie parti del mondo, ma è accomunato dalla volontà del potere di sopprimere il dissenso; passando per la causa ambientale, che impone una riduzione dell’impatto umano sulle risorse del pianeta e sugli altri esseri viventi; e ancora, nella necessità di una sovranità alimentare, che metta la qualità al di sopra del profitto; arrivando all’abolizione dello sfruttamento della classe medio-bassa, troppo spesso posta ai margini dell’interesse comune e lasciata priva di qualsiasi tutela socio-economica. Un flusso di tematiche la cui urgenza è diventata ancora più evidente in seguito alla pandemia, rivelando un’altra faccia dell’emergenza sanitaria che fa da specchio fedele al sistema nel quale viviamo. Un sistema alimentato dalla smania consumista, che appiattisce ogni risorsa e ogni valore al livello di oggetto, materiale da consumare voracemente: così abbiamo visto accadere per i prodotti alimentari, così accade per i lavoratori e così accade per l’arte, in un circolo vizioso di mercificazione che pretende di ottimizzare i risultati a discapito di tutto il resto. La pervasività di questo sistema è totale, tanto che gli usi e costumi della massa si adeguano comodamente sugli allori, così che il consumismo diventi uno stato mentale. Per questo, il primo cambiamento auspicabile è quello della mentalità collettiva, bombardata dai media e costruita sulle deboli illusioni che questo sistema ha costruito. Una mentalità fatta di competizione e voglia di sopraffazione, abuso delle risorse naturali e artificiali, ignoranza e perbenismo.
L’emergenza Covid è stato il banco di prova davanti al quale l’umanità intera ha fallito, provocando conseguenze inaccettabili che hanno danneggiato le parti più sensibili della società, in particolare i giovani. Essi sono infatti tutt’ora travolti da un senso di confusione e disorientamento. Tuttavia, questo periodo storico può essere colto anche come una possibilità per gli stessi giovani di riconoscere le problematiche intrinseche al sistema che, sin dalla loro nascita, è stato millantato come l’unico possibile, ma che, in realtà, ha tanto bisogno di essere sovvertito, a partire proprio dalla mentalità individuale e collettiva. La pandemia ha messo l’umanità davanti allo specchio: ora tocca a quest’ultima decidere se riconoscersi oppure continuare a voltare la faccia.

“Ben venga il caos, perché l’ordine non ha funzionato” – Karl Krauss

(ph: Grazia Perrilli)

Tanuzzo Supertramp