Si può guarire attraverso l’arte?

Ci si può curare con l’arte? Molti studiosi, già negli scorsi secoli, si sono posti questa domanda: fra questi spicca il nome di Freud. Ma quali sono le origini delle arti-terapie? Come si sono evolute nel tempo? Quale ruolo hanno le arti nella psiche umana e quale ruolo può avere la psiche nella produzione artistica?

 

“Art Brut #26” – Jean-Pierre Vanhonsebrouck

LE ORIGINI

Il rapporto tra l’arte e la terapia psicoanalitica è stato nel tempo studiato da molteplici personalità, che hanno dimostrato una relazione diretta tra le varie forme dell’esperienza artistica e la psiche.
Già a partire dagli ultimi anni del diciottesimo secolo, alcuni neurologi e psichiatri -principalmente di provenienza francese- cominciarono a studiare le capacità espressive dei loro pazienti. Tra essi, in particolare, merita di essere ricordato Philippe Pinel, considerabile uno dei primi avanguardisti: Pinel sviluppò un metodo terapeutico conosciuto come traitement moral, che lasciava una certa libertà espressiva al paziente e si fondava sulle attività artistiche che lo stesso formulava.
Un altro studioso che contribuì agli studi nella stessa epoca di Philippe fu il tedesco Christian Reilche implementò il traitement di Pinel con un processo di stimolazione della produzione artistica: la prima fase della sua implementazione consisteva in esercizi fisici svolti all’aria aperta, la seconda acuiva i sensi del paziente attraverso degli oggetti, mentre la terza e ultima fase introduceva dei disegni e dei simboli che avevano lo scopo di stimolare la mente del paziente attraverso la rievocazione di esperienze psichiche ed affettive.
Questi primi studi aprirono alla possibilità di sovvertire la rigidità e l’isolamento degli ospedali psichiatrici attraverso la costruzione di una comunità più empatica verso le necessità del malato. Tuttavia, queste possibilità si rivelarono un’illusione di pochi, in quanto insorsero delle resistenze da parte degli istituti ufficiali verso l’accettazione di queste pratiche: molti psichiatri particolarmente legati alla tradizione assunsero posizioni intransigenti, di forte scetticismo e preferirono rinchiudere e abbandonare i malati cronici piuttosto che instaurare una comunicazione con loro. Infatti, l’arte-terapia come oggi la conosciamo si fonda sulla comunicazione, così come una delle sue dinamiche più interessanti, quella della mediazione artistica. Ma ci ritorneremo più avanti.
Nonostante lo scetticismo Ottocentesco, il ventesimo secolo portò una ventata di innovazione, in particolar modo grazie agli studi di due personalità illustri come Freud e Jung. Essi, per le loro teorie, ripresero alcuni esperimenti innovativi che Jean-Martin Charcot -un neurologo francese- aveva condotto nel suo ospedale psichiatrico, la Salpetriere: attraverso metodi atipici di ipnosi, Charcot e alcuni suoi colleghi come Emile Magnin ottennero risultati sorprendenti e notarono come i pazienti si liberassero dalle loro inibizioni, lasciandosi trasportare da svariate forme di creatività artistica. Nel caso di Magdeleine, una paziente di Magnin, la giovane sviluppò delle vere e proprie performance teatrali, stimolata probabilmente dal fatto che le era stata proibita la scena artistica durante l’infanzia.

Alcune delle foto contenute in “Art et hypnose” dove Emile Magnin parla dell’esperienza di Magdeleine.

Tra le mura della Salpetriere, Charcot arrivò a produrre una sorta di enciclopedia contenente molteplici fotografie di movimenti facciali o corporei in relazione ai disturbi psichici di cui i pazienti soffrivano. Questa opera, intitolata Iconographie photographique de la Salpetriere, costituisce un importante precursore degli odierni studi condotti da Paul Ekman nel FACS (Facial Action Coding System). I due studi differiscono per il contenuto -in quanto Ekman si pone di analizzare le emozioni derivanti da specifiche espressioni facciali- ma sono del tutto assimilabili per la tipologia di indagine, che viene effettuata attraverso le immagini. L’arte, quindi, assume la duplice connotazione di pratica liberatoria e metodo di ricerca. In tal senso, fu importante il contributo degli studiosi della scuola di Nancy, i quali si servirono di opere del passato per studiare casi di disturbi mentali. Essi arrivarono a sostenere una relazione tra le tecniche di cui si serve l’artista per suscitare le emozioni e le nascenti pratiche psicoterapeutiche. Basti pensare alla sensazione di estasi che si prova dinanzi ad un dipinto, o il sentimento malinconico che segue una dolce musica: l’universalità di questi sentimenti portò questi studiosi a postulare che non vi è una linea di demarcazione precisa tra patologico e non patologico.

Tutto questo fermento culturale e scientifico ispirò Sigmund Freud nella formulazione della teoria dell’inconscio, scoperta fondamentale in campo psicoanalitico con forti implicazioni sul versante dell’arte. Attraverso la pratica artistica, infatti, il paziente era messo nelle condizioni di lasciar andare il proprio inconscio e, allo stesso tempo, di comprendere le proprie emozioni. Inoltre, Freud promosse il modello delle associazioni libere, per il quale l’esperienza artistica si rivelò particolarmente adatta. Non tanto l’arte visiva, quanto il romanzo e la scrittura si dimostrarono in sintonia con gli studi freudiani: attraverso la componente narrativa, egli era in grado di rappresentare il passato o i sogni del paziente, afferrando una serie di indizi e simboli che associava alla situazione contingente. Ernst Kris, allievo del dottor Freud, esaltò il processo artistico come “una regressione al servizio dell’Io”, evidenziando lo spazio neutro che questo viene a creare tra terapeuta e paziente, all’interno del quale quest’ultimo può ritrovare se stesso in maniera pura, instaurando un rapporto di armonia con il proprio Io e con gli altri individui. Uno dei tanti meriti di Freud è sicuramente quello di aver evidenziato il rapporto tra arte e seduta terapeutica: in altre parole, egli sostenne che l’arte-terapia doveva imitare le istanze della psicoterapia (e quindi non era da considerarsi una pratica avulsa), in quanto entrambe si basavano sugli stessi scambi comunicativi che non potevano prescindere dal confronto verbale. Al contempo, lo psicoanalista austriaco studiò il processo artistico anche al di fuori delle convenzionali tecniche terapeutiche, producendo numerosi saggi in cui analizzava delle celebri opere d’arte, al fine di risalire alla caratteristiche psicologiche che avevano portato gli artisti a compiere determinate scelte. Probabilmente, lo studio più rappresentativo di questa produzione è quello sul Mosè di Michelangelo, anche se sono numerosi gli scritti in cui Freud unisce psicologia e arte.

Lo psicoanalista austriaco Sigmund Freud

La storia del rapporto tra le arti e la psiche è sicuramente molto più lunga di quella esposta fino ad ora e comprende diverse implicazioni, ma possiamo sostenere che i casi citati in questo excursus storico siano alla base delle considerazioni che hanno concretamente aperto il dibattito sull’affinità tra i due ambiti di studio, favorendo, nel corso del novecento, una rivalutazione dello statuto terapeutico dell’arte. Ciononostante, ancora oggi sono poche le nazioni che riconoscono ufficialmente questa professione e questa pratica.

IL PROCESSO ARTE-TERAPEUTICO

Al momento della sua nascita, la diffidenza nei confronti dell’arte-terapia poteva essere giustificata dalla scarsità di informazione a riguardo. Al giorno d’oggi, questa diffidenza è invece dovuta ad un eccesso di informazioni confuse ed erronee, divulgate, nel corso degli anni, dai vari media: si è spesso parlato di questa pratica come un’esperienza ludica, di intrattenimento, senza fondamento scientifico. In realtà, le arti-terapie sono vere e proprie sedute psicoanalitiche, situazioni precise che non differiscono dalle modalità canoniche per regole e controlli e si iscrivono in un quadro ben preciso: la loro peculiarità consiste nell’andare oltre il linguaggio verbale, superando le difficoltà comunicative dei pazienti attraverso la pratica artistica per agevolare il processo di verbalizzazione, proprio della psicoanalisi. L’obiettivo non è quello di produrre opere artistiche dall’alto valore estetico-formale, bensì quello di stimolare la creatività insita in ogni individuo. D’altronde la creatività, specialmente nei casi clinici, ha bisogno di uno stimolo per essere esternata.
Le arti-terapie seguono uno specifico protocollo, che prevede incontri periodici e contesti ben definiti secondo un programma studiato da un professionista, qualificato. Tale protocollo fu consolidato già a partire dagli anni ’50, quando le arti-terapie si affermarono con particolare intensità in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Molti dei soldati impegnati al fronte e sopravvissuti accusarono terribili nevrosi, causate dai forti shock subiti: in tale circostanza, assunse un ruolo centrale il rapporto diretto tra terapeuta e paziente, mentre il processo artistico venne adoperato per costruire un canale di comunicazione tramite il quale elaborare le esperienze traumatiche. Le prospettive inaugurate da Freud e Jung ebbero un grande impatto sulla maggiore apertura verso l’applicazione delle arti terapie in campo psicoanalitico. Proprio gli studi di Freud furono ripresi da Margaret Naumburg, un’educatrice che favorì l’ingresso delle arti visive all’interno del processo psicoterapeutico. La Naumburg adottava una tecnica che partiva dalla stimolazione al disegno del paziente che, così facendo, produceva segni grafici riconducibili a contenuti inconsci o conflittuali. Il secondo passaggio consisteva invece nella verbalizzazione, tramite cui iniziava la vera e propria analisi: il disegno, difatti, era una tecnica propedeutica che favoriva il dialogo tra terapeuta e paziente. Nello stesso campo, troviamo altre applicazioni terapeutiche che riguardano per lo più la funzione del colore, ma anche il contatto con l’argilla ed il materiale naturale, come la sabbia o le foglie.

L’importanza del colore nel processo arte-terapeutico.

Oltre alla macroarea dell’arte visiva, fra le arti-terapie troviamo modalità di musicoterapia, teatro-terapia e poetry therapy, sebbene siano meno diffuse e approfondite della prima.
La musicoterapia trova varie attuazioni a seconda degli strumenti usati ed è molto utile per suscitare nel paziente le emozioni che sono alla base delle successive analisi: a tale fine, gli strumenti musicali possono essere quelli più comuni, oppure sono propri della tradizione di una specifica area geografica. Inoltre, sono molteplici le applicazioni che prevedono l’uso di strumenti costruiti a mano con materiali rudimentali, così come l’utilizzo del proprio corpo come strumento.

La teatro terapia, invece, trova un precedente storico nella pratica dello psicodramma, in cui il terapeuta aiutava il paziente ad inscenare il contenuto dei propri sogni, così che questi ultimi si potessero manifestare in tutta la pienezza di significato. In questo ambito è molto interessante la danza terapia, fondata sulla classificazione dei movimenti corporei proposta da studiosi come Rudolf Laban. Questa pratica prevede un witness e un mover: quest’ultimo chiude gli occhi e si lascia trasportare dalle proprie immagini interiori, mentre il primo lo osserva senza interrompere e, solo successivamente, aiuta il paziente a verbalizzare la sua esperienza.
Infine abbiamo la scrittura, che secondo molti esperti (e come insegna Freud) è uno degli strumenti cardine della pratica psicoanalitica e artistica. La scrittura, in particolare quella diaristica, risulta fondamentale nel processo di riparazione ed elaborazione del lutto. Negli ultimi anni dello scorso secolo è emersa la pratica della poetry therapy, in particolare grazie agli studi di Nicholas Mazza, che ne ha individuato tre momenti fondamentali: una prima fase prescrittiva, in cui si introduce la tipologia del materiale letterario all’interno della comunità; una seconda fase creativa, in cui i pazienti hanno la possibilità di comporre, magari ispirandosi a ciò che hanno letto o ascoltato; infine, un momento simbolico che tende a metaforizzare il presente attraverso una narrazione della stessa comunità.
Queste tecniche non fanno parte di rigidi schemi procedurali, al contrario, sono aperte ad influenze esterne e, soprattutto, sono altamente soggettive, in quanto dipendono dalle singole patologie o dalle specifiche necessità del soggetto. Infatti, più che di patologie è opportuno parlare di “casi specifici”, una definizione che inquadra meglio i tipi di disturbi che possono essere trattati con la pratica artistica. Inoltre, essa non necessita di una malattia patologica per essere attuata, bensì trova riscontri positivi anche in casi di malessere generale o di incomprensione della propria personalità. Ciò è dovuto al fatto che, in fondo, ognuno di noi porta al suo interno un po’ di follia, sia che essa si manifesti attraverso malattie patologiche come la schizofrenia, sia che essa rimanga sottaciuta e confinata ad uno stato mentale particolare. 

LA MEDIAZIONE ARTISTICA

Una parte fondamentale del processo di arte-terapia, fin qui solamente citata, è quella della mediazione artistica, probabilmente il passaggio più importante per comprendere le affinità che legano arte e psicoanalisi. Questa concezione vede nell’opera artistica -materiale o immateriale- che scaturisce dall’incontro tra realtà e soggetto, una terza parte, un’entità distinta e specifica rispetto al rapporto che si viene a creare tra il mondo esterno e l’interiorità del paziente.

Attraverso l’arte, l’individuo impara a conoscere, comprendere ed esternare il suo “io” più intimo.

Andando oltre la contingenza patologica, l’arte diventa per ognuno di noi un vero e proprio mediatore tra ciò che ci circonda e ciò che abbiamo dentro, la nostra identità, sempre mutevole e alla ricerca di una definizione. 

“Per mezzo del Sé creativo, ogni individuo riesce ad interpretare in modo selettivo e singolare l’immagine di sé e della realtà che lo circonda, al punto da far assumere alla propria esistenza il significato di esperienza unica e irripetibile, comunque in continua evoluzione, come esige la sua psiche in costante movimento”.

Pier Luigi Pagani

Nel tempo sono stati proposti vari modelli teorici di mediazione artistica, tra cui alcuni particolarmente degni di nota. Ad esempio, vale la pena citare il modello di Winnicott e dell’oggetto transizionale, che richiama la prima fase della vita umana. Il modello evoca un parallelismo con le fasi infantili dell’individuo, in particolare con i primissimi momenti in cui il bambino è ancora legato alla mamma, delega la sua sopravvivenza ad essa e, per superare quella che è stata definita “angoscia della separazione”, si affida ad oggetti transizionali come il peluche e il ciuccio: la stessa cosa accade nella mediazione artistica, dove l’arte costituisce uno spazio transizionale che si rivela funzionale al rapporto tra paziente e terapeuta.
Un altro modello è quello dell’empatia e dell’interpersonalità di Stern, in cui lo studioso riprende le recenti scoperte neurologiche riguardanti i neuroni specchio, chiamati così perché riflettono i comportamenti e le azioni di chi abbiamo vicino, favorendo un approccio empatico nella comunicazione. Il processo creativo dell’arte emula e amplifica questa dinamica neurologica, favorendo lo scambio di emozioni tra gli individui, mentre la capacità di immedesimazione, basata sulla sintonizzazione -sia con l’altro individuo che con l’altro da sé- che avviene nel momento contingente, favorisce a sua volta la creatività.
Possiamo considerare la mediazione artistica come il concetto costituente dell’arte terapia. Infatti,
la comunicazione sta alla base del processo terapeutico così come fare arte vuol dire comunicare: il terapeuta rappresenta solamente il facilitatore in questo scambio comunicativo. Troviamo, ad esempio, alcuni momenti di mediazione artistica nella fototerapia, in cui il paziente ritrova la propria immagine, o nello psicodramma sopra menzionato, in cui il paziente ritrova la propria narrazione. Queste dinamiche portano il malato a riconoscere se stesso e la sua malattia, ma allo stesso tempo gli consentono di divenire  “altro da sé” attraverso l’espressione artistica: il rapporto apparentemente contraddittorio che si viene a creare tra queste due fasi riposa alla base del processo di riabilitazione in quanto, più che ritrovare se stesso, il paziente scopre l’Io autentico, così da imparare ad amarsi ed accettarsi. Importante in questo senso è l’immedesimazione, essenziale per la crescita personale. D’altronde, tornando all’esempio proposto in precedenza, non è difficile notare come un bambino apprenda la vita emulando i gesti dei genitori: la mamma gli fa il bagno, lui le ruba la spugna per ripetere la stessa azione su di lei.
Concludendo, una caratteristica importante della mediazione artistica è quella della sublimazione, introdotta ancora una volta dal nostro dottor Freud: attraverso questo processo, che spesso avviene inconsciamente, ognuno di noi riesce a trasferire i propri dolori e i propri conflitti all’interno di una specifica sfera d’interesse, così da sublimarli in qualcosa di positivo. Al pari, la pratica artistica si regge interamente su questo processo, attraverso il quale l’artista riesce a trasformare le proprie pulsioni negative in bellezza estetica e comunicativa. La mancanza di questa capacità di sublimazione è infatti spesso legata alla nascita di patologie o di stati negativi.

ART BRUT E CONSIDERAZIONI

A dispetto delle denigrazioni, troppo spesso poste in atto dalla psicoterapia ufficiale nei confronti degli artisti e delle opere d’arte, credo sia dunque possibile affermare l’esistenza di un’affinità intrinseca tra arte e psicoanalisi. Ritengo anzi fondamentale riconoscere che l’arte-terapia sia una pratica valida, tanto per i malati patologici quanto per le persone sane. Ognuno conserva dentro di sé un po’ di follia: sentirsi “sani” dal punto di vista mentale significa, evidentemente, avere qualcosa da scoprire su sé stessi e sul mondo circostante. Lo stesso mondo che, ad uno sguardo più attento, si rivela colmo di contraddizioni.

La pazzia non è dunque una condizione necessariamente negativa. Al contrario, a volte aiuta ad aggirare la pretesa di razionalità degli approcci conoscitivi tradizionali, oltre ad essere una prerogativa della produzione artistica. Basti pensare ad artisti noti per la spiccata genialità, come Vincent Van Gogh ed Edvard Munch: essi conobbero periodi di ricovero presso ospedali psichiatrici ed elaborarono singolari prodotti espressivi che, in qualche modo, contribuivano all’elaborazione della loro sofferenza mentale. D’altronde, l’arte-terapia consiste proprio nell’agevolare l’azione di sublimazione delle pulsioni inconsce. Un’azione che nell’artista avviene spesso automaticamente, ma che è totalmente assente in molti casi di “follia patologica”, se non in seguito a precisi stimoli e confronti in grado di ispirare la creatività insita in ogni essere umano.

Non è un caso che la produzione artistica fuoriuscita dagli ospedali psichiatrici sia diventata una vera e propria corrente artistica che prende il nome di Art Brut: il termine fu coniato da Jean Dubuffet per definire un tipo di arte spontanea, senza particolari pretese formali od estetiche. Il pittore francese condusse delle ricerche sui prodotti artistici realizzati al di fuori dei circuiti culturali canonici, raccogliendo, a partire dal 1945, migliaia di opere provenienti da Atelier psichiatrici ed altre situazioni di emarginazione. Da questa esperienza nacque la Collezione dell’Art Brut di Losanna, ancora oggi una delle più importanti al mondo, la quale ospita lavori di artisti divenuti celebri. Tra questi spicca il nome di Adolf Wolfli, il primo autore ad aver varcato gli stretti confini della struttura psichiatrica attraverso le proprie opere.

“Saint Adolf portant les lunettes entre les deux villes géantes Niess et Mia” – Adolf Wölfli, 1924

A livello musicale, invece, un altro rappresentante importante dell’arte outsider è stato Daniel Johnston, la cui produzione lo-fi lo ha portato ad esibirsi sui palcoscenici di tutto il mondo, prima di passare a miglior vita meno di un anno fa.

Le rappresentazioni artistiche mettono a nudo l’inconscio del malato patologico, che diversamente attua meccanismi di difesa per non essere esposto. In una società come quella in cui viviamo, dove molte persone provano un senso di alienazione verso l’ordine costituito e dove la depressione costituisce una tipologia silenziosa di pandemia globale, l’arte si pone di guarire e di spiegare le psicosi che ognuno di noi si porta dentro da tutta la vita. In questo senso, è importante che la pratica artistica sia riconosciuta all’interno della psicoterapia ufficiale: per quanto ciò avvenga già in alcuni stati (in particolare negli Stati Uniti, in cui numerosi professionisti si dedicano sia alla pratica che alla ricerca), in molte parti del mondo l’arte-terapia non viene approfondita a causa della scarsa legittimazione di cui gode. In Italia, ad esempio, non è ancora diventata ufficiale, ma si stanno muovendo molte ricerche a riguardo che promettono di scardinare i pregiudizi che, tradizionalmente, legano queste due aree di interesse, ritenute per tempo così distanti ma, di fatto, così vicine: l’arte e la psicologia.

T. Supertramp
(artwork: Brindisi)