Italia e Libia: tra denaro e lager

“Oltre il tempo passato da solo a parlare
col cielo e le stelle.
Oltre i segni che non potrai più cancellare
sopra e sotto la pelle.
Oltre un mondo feroce lasciato alle spalle,
da dimenticare,
c’è una terra lontana, una lingua straniera,
c’è la fine del mare.
Oltre un sogno rubato e pagato col sangue,
che ti riga le guance,
ci sta un mare che inghiotte la vita di notte
c’è una bocca che piange.”

(Danno, Raffaele Casarano, “Oltremare”)

Da oltre 60.000 anni l’essere umano crea, cresce e si evolve attraverso le migrazioni. L’esigenza di spostarsi, di essere nomadi, ha permesso l’espansione, su tutta la superficie terrestre, della specie umana. La curiosità, la voglia di attraversare continenti diversi si è, tuttavia, scontrata con una logica di dominio e di prevaricazione. La cultura, la conoscenza e la libertà di poter vivere ovunque sul Pianeta, sono ostacolati dall’atavica conquista, dalla guerra e dal sangue.

Tutto ebbe inizio dall’Africa.

Secondo la maggior parte delle ricerche archeologiche, l’Africa rappresenta la culla dell’umanità, il territorio che ha ospitato i primi Homo Sapiens. Ciò nonostante, la sua figura di nido umano è stata, nel corso della storia, macchiata e sottomessa da numerose guerre e deportazioni. Crocevia e preda per la conquista, il continente africano divenne per secoli palcoscenico di lotte tra diversi imperi. Dagli Egizi ai Cartaginesi, dai Romani agli Ottomani, quasi tutte le potenze del mondo antico si resero protagoniste di una perenne campagna di sottomissione delle popolazioni africane. Successivamente, di conseguenza alle prime esplorazioni coloniali europee del XV secolo, si avviarono ulteriori processi di sfruttamento delle risorse interne.
L’Africa diventò, quindi, il diamante ricercato da tutti i mercati occidentali, e non solo.
Lo sviluppo e la crescita del luogo furono infatti influenzati e limitati direttamente dalla crescente e costante presenza di popolazioni straniere. Oltre a depauperare il territorio, sfruttandolo geologicamente ed economicamente senza ritegno, anche gli abitanti del posto vennero venduti, acquistati e sfruttati dalle popolazioni europee per oltre 400 anni. In particolare, milioni di esseri umani furono schiavizzati e deportati nel Nuovo Mondo in seguito alla sua scoperta, dove venivano imprigionati nelle grandi piantagioni coloniali e costretti a lavorare per il commercio europeo. Nell’Ottocento ci fu una vera e propria “spartizione dell’Africa”, che diede il via ad un altro, tragico, capitolo della storia moderna, durato fino alla II Guerra Mondiale. Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Italia e Germania colonizzarono e divisero il continente africano.

Il colonialismo era diventato un requisito necessario per le nazioni, in una società caratterizzata da guerre mondiali. Ognuno aveva il dovere di competere, conquistare, dominare e distruggere. L’Italia non fece eccezione, indossando le vesti del paese colonizzatore a partire dalla fine del XIX secolo. Il giovane Regno, infatti, si inserì nel panorama coloniale mondiale già a partire dalla sua unificazione e fondazione, insediandosi, tramite occupazioni militari, in quattro territori africani: Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia.

L’Italia in Libia

Molte storie vengono rimosse con il tempo, quando i testimoni diventano sempre più anziani e si portano con sé racconti di epoche lontane. L’invasione dell’Italia in Libia è stato un processo lungo, portato avanti da governi diversi. Nel 1911, il presidente del consiglio Giovanni Giolitti diede il via alla conquista di alcune zone libiche come la Cirenaica e la Tripolitania, scontrandosi con l’Impero Ottomano. La campagna militare si intensificò dopo la Prima Guerra Mondiale fino al 1922, anno in cui il governo Facta estese le conquiste italiane, colonizzando Misurata, Gebel Nefusa, Gefara e Garian.

Nello stesso periodo, nel Bel Paese si affermò il fascismo con Benito Mussolini che, dopo la Marcia su Roma nel ’22, promise di rendere il Paese grande, indimenticabile e potente: automi in divisa, sotto il controllo del Duce, iniziarono una lotta dura e sanguigna contro i libici. Alla fine del 1924, la Tripolitania (Libia occidentale), era interamente colonizzata e sottomessa.
Rimuovere qualsiasi resistenza, annichilire qualsiasi opposizione e sfruttare il territorio erano le uniche prerogative dell’esercito italiano. La popolazione locale venne perseguitata, deportata ed uccisa in campi di prigionia e concentramento, situati principalmente sulla costa del golfo della Sirte. Il generale fascista Graziani guidò le operazioni militari, arrivando a sopprimere, nel 1930, quasi tutte le resistenze anticoloniali. L’unica a resistergli fu la comunità guidata da Omar al-Mukhtar, in Cirenaica. Al-Mukhtar venne dunque catalogato dal regime come un nemico da contrastare e annientare in qualsiasi modo: fu infatti catturato dagli squadroni libici e impiccato pubblicamente nel 1931. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e, successivamente al declino del fascismo, l’Italia abbandonò, almeno formalmente, tutte le sue colonie, compresa quella libica. Le trattative tra i due Paesi durarono per anni, tra sterline, contributi previdenziali e infrastrutture concesse alla Libia.


“Il mio amico Berlusconi”

La guerra ha ripercussioni nel passato e nel presente, invade l’intera società e ne influenza il futuro. Dopo il drammatico percorso della Libia, il territorio era devastato, impoverito ed estremamente fragile. Infatti, tra il 1969 e il 1970, un gruppo di militari libici organizzò e mise in atto un colpo di Stato, che portò al potere il loro generale, Gheddafi, deponendo la monarchia vigente. In questo periodo il nuovo regime rafforzò, attraverso una propaganda politica, un sentimento popolare ostile verso gli italiani. Furono confiscati tutti i beni degli italo- libici e, successivamente, espulsi dal territorio. La massiccia esportazione di petrolio concesse a Gheddafi ed al suo partito di arricchirsi e di investire nel proprio Paese, arrivando a ricoprire un’importanza globale.
I rapporti con l’Italia si intensificarono nel 1959 con l’apertura della multinazionale ENI (nota in particolare per le attività nei settori del petrolio) in Libia. La relazione bilaterale tra le due nazioni, quindi, non ha mai incontrato una fine.
Nel 1998 ci fu il primo tentativo di accordo tra la Libia e l’Italia, definito il Comunicato Congiunto, ma annullato da entrambe le parti. La diatriba era sorta da interessi politici ed economici contrastanti: la posizione della Libia nell’Africa del Nord era (ed è) strategica per il controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo. Il contenzioso durò per anni, fino al 2008, anno in cui i due paesi stipularono il Trattato di Bengasi. Negli anni precedenti si erano svolti una serie di incontri tra il Colonnello Gheddafi e il Presidente del Consiglio Italiano, Silvio Berlusconi. L’intesa tra i due permise di arrivare al “trattato di amicizia e di cooperazione”, risarcendo economicamente la Libia e chiudendo il capitolo del passato coloniale. Oltre alla creazione di una salda relazione economica, i due Paesi dichiarano di impegnarsi insieme alla lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all’immigrazione clandestina. Riportando il testo originale del trattato:

“Sempre in tema di lotta all’immigrazione clandestina, le due Partì promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche. Il Governo italiano sosterrà il 50% dei costi, mentre per il restante 50% le due Parti chiederanno all’Unione Europea di farsene carico, tenuto conto delle Intese a suo tempo intervenute tra la Grande Giamahiria e la Commissione Europea.” 

Nel 2009 si tenne la prima visita ufficiale di Gheddafi a Roma, durata tre giorni, nella quale incontrò le cariche più importanti dell’epoca, tra cui anche l’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tra una stretta di mano, un calice di vino e tante telecamere, i rapporti bilaterali tra Italia e Libia venivano, proprio in questi giorni, dipinti e consolidati.
Quale differenza c’è tra l’attacco degli americani nel 1986 contro le nostre case e le azioni terroristiche di Bin Laden?”

(Muammar Gheddafi, 2009)

Questo nuovo capitolo ha ampliato gli accordi tra i due Paesi a livello economico, sociale e militare.
A Roma Gheddafi dichiarò più volte, pubblicamente, di essere totalmente contrario alle azioni americane in Africa e nel Medio Oriente: nel suo discorso ha ricordato l’attentato nell’86, proprio quando Bettino Craxi, ex Presidente del Consiglio dell’epoca, comunicò prima all’ambasciatore libico la notizia dell’offensiva americana.
Tuttavia, alla fine dei negoziati, nessuna delle due parti riuscì a prevedere i tumulti che stavano per coinvolgere il territorio nord-africano, sperando di poter continuare a placare i dissensi con strategie autoritarie.

© Roberto Monaldo / LaPresse
16-11-2009 Roma


“Dal letame nascono i fiori”

Mohamed Bouazizi è un nome diventato simbolo dopo il 2010, anno in cui morì dopo essersi dato fuoco in Tunisia. Era il 17 dicembre 2010, il sole riscaldava il mercato a Tunisi. Mentre la giornata confluiva nell’ordinaria povertà, un ragazzo venne derubato da un agente. La poliziotta aveva incontrato il giovane il giorno precedente e, come da routine, lo incalzò subito con una serie di abusi ed insulti, placati in seguito dal suo capo e dallo zio del ragazzo. Laddove la violenza prevale, tuttavia, non bastano ordini momentanei per fermare logiche di potere e di sottomissione.
L’agente ritornò il giorno dopo, nel mercato in cui lavorava il ragazzo, e, protetta dalla divisa, iniziò a schiaffeggiarlo ed umiliarlo pubblicamente. Il ragazzo era proprio Mohamed Bouazizi, 26enne con un futuro ancora da vivere, ma un continuo presente macchiato dalla povertà e dal terrore.

Mohamed si sentiva, come tanti altri giovani, vittima di quotidiani soprusi: un sistema estremamente violento spinse, infatti, il giovane a rispondere con un gesto altrettanto estremo. Quel giorno, dopo l’ennesimo abuso, decise di manifestare la propria rabbia dandosi fuoco, proprio in quel mercato dove si recava tutti i giorni, per riuscire ad oltrepassare quel muro di rassegnazione che coinvolgeva tutta la popolazione.
“Le idee sono a prova di proiettile” e, infatti, il gesto di Mohamed fece il giro del mondo, dando il via ad una serie di fuochi nei Paesi arabi e nel Nord Africa, che sfociarono nella “primavera araba”.
Tra i paesi dove la primavera sbocciò troviamo, appunto, la Libia, che vide principalmente coinvolta la città di Bengasi. Nel 2011 scoppiarono gli scontri nel capoluogo, generando una guerra civile contro il dittatore Gheddafi. Le manifestazioni finirono con il sangue, esecuzioni e repressioni da parte della polizia nei confronti dei ribelli, che intanto avanzavano verso Tripoli. Le autorità riuscirono a proteggere il Colonnello a Sirte, fino all’attacco del 20 ottobre 2011. A contribuire alla resa e successiva uccisione di Gheddafi furono i vari interventi di alcuni paesi dell’ONU (inaugurati dalla Francia, dagli USA e dalla Gran Bretagna), destabilizzando le forze del dittatore libico. Ormai disarmato, il Colonnello venne ucciso e la comunicazione ufficiale arrivò dal Cnt, il Consiglio nazionale di transizione, autorità politica anti-Gheddafi nata durante la guerra civile. La notizia si diffuse, da subito, oltre il continente, con un videoin cui si documentava la sua cattura.

Mohamed Bouazizi, di Carlos Latuff, dicembre 2010

La Libia dopo Gheddafi

Dopo l’operazione militare da parte delle forze interne, con il fondamentale appoggio internazionale, il Paese venne abbandonato tra le macerie. Gruppi sparsi di milizie si contendevano il territorio ed i giacimenti di petrolio, la guerra continuava atomizzata, come una perenne pioggia sottile. Le persone cercarono rifugio lontane dalla propria casa, ormai devastata dal conflitto. Il viaggio nel Mediterraneo, verso altre terre, altre nazioni, rappresentava l’unica speranza per continuare a sopravvivere. Dalla Libia iniziarono a fuggire migliaia di esseri umani, con tanta speranza, a bordo di imbarcazioni senza speranza. Si preferiva (e si preferisce) attraversare l’imprevedibilità del Mar Mediterraneo che rimanere bloccati nella miserie e nel conflitto: ma la libertà di muoversi nel Mondo è un lusso di pochi, ed i confini nazionali fungono, in moltissimi casi, da barriera per le altre popolazioni. Con l’aumento degli sbarchi, l’Italia diventò sempre più inaccessibile per chi, da secoli torturato, cercava una seconda possibilità nel Bel Paese, proprio quel Paese che tempo fa aveva schiavizzato e colonizzato la popolazione libica. La parola emergenza venne immediatamente accostata alla parola migrante, costruendo nei media, nei discorsi pubblici e politici, l’identikit dello straniero, preso fin da subito di mira dall’opinione pubblica e dalla politica italiana.
Coalizioni di destra, centro destra, sinistra, governi del PD, governi giallo-verdi e giallo-rossi, un susseguirsi di partiti e di volti che, nella realtà, avevano un filo rosso in comune: il controllo dei confini italiani e dei flussi migratori.

© Massimo Sestini / 2014-06-07

Mare Nostrum

Cosa rimane dell’accordo del 2008 tra Gheddafi e Berlusconi?

Dal 2012 “l’emergenza migratoria” inizia ad essere un fenomeno ormai evidente sulle coste europee. Il 3 ottobre 2013 si verificò uno dei più gravi naufragi di quel periodo: un’imbarcazione libica naufragò nei pressi del porto di Lampedusa, provocando oltre 200 morti.

Il governo italiano si macchiò ancora una volta di sangue e si cercò una soluzione provvisoria per controllare nuovamente le frontiere.
In seguito alla tragedia di Lampedusa, il governo italiano guidato da Enrico Letta, iniziò l’operazione militare e umanitaria definita Mare Nostrum. Questa missione era destinata ai migranti che dalle coste libiche cercavano di attraversare il Canale di Sicilia. Tuttavia, il 31 Ottobre 2014 , durante il governo Renzi, si decise di sospendere Mare Nostrum. Le organizzazioni non governative (ONG) furono le uniche che continuarono ad occuparsi dei salvataggi in mare, mentre i governi di tutta Europa rafforzavano il controllo dei confini. Mare Nostrum fu sostituita da un’operazione europea,“Triton”, mirante principalmente a sorvegliare, attraverso navi ed aerei, i flussi migratori. Il numero di naufragi aumentò in maniera esponenziale: solo nell’aprile del 2015 morirono più di 700 persone, a circa 70 miglia di distanza dalle coste libiche. Nel frattempo la Libia attraversava nuove guerre civili, che vedevano contrapposte due coalizioni di governo: una guidata dal generale Khalifa Haftar, l’uomo alla guida dell’Esercito nazionale libico (Lna), e dall’altra parte il governo di Fayez al-Serraj. Per avere il controllo assicurato delle frontiere, l’Europa aveva la necessità di affidarsi ad una figura politica capace di gestire la situazione interna. L’Italia era alla ricerca di un altro accordo per trovare una “soluzione definitiva” per i flussi migratori. Ma con chi stabilire un’alleanza in un territorio così frammentato?

Il memorandum di intesa Italia-Libia

L’ONU decise di schierarsi dalla parte di Al-Serraj nel 2015, riconoscendolo internazionalmente come unico governo legittimo. L’illusione di poter annientare con un accordo di pace l’avversario politico, ovvero Haftar, si infranse subito. Tuttavia, l’Italia si affrettò a stipulare un nuovo accordo e, nel febbraio del 2017, siglò il Memorandum di intesa Italia-Libia, fortemente sostenuto dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, firmato dal presidente del Consiglio Gentiloni e dal primo ministro libico Al-Serraj. Il documento doveva risolvere: “alcune questioni che influiscono negativamente sulle Parti, tra cui il fenomeno dell’immigrazione clandestina e il suo impatto, la lotta contro il terrorismo, la tratta degli esseri umani e il contrabbando di carburante”.

Il premier Gentiloni e quello libico alla firma dell’accordo.

Delegando ed affrontando la responsabilità dei flussi migratori tramite uno spietato controllo interno, l’Italia insieme alle altre nazioni occidentali diventavano porti sempre più lontani per i migranti. Il governo italiano, dopo questo accordo, ha iniziato a finanziare Al-Serraj, sostenendo le istituzioni militari libiche. Negli anni, l’Italia si è inserita gradualmente nella gestione delle tratte migratorie in Libia, finanziando la Guardia costiera libica, pagata profumatamente per chiudere il confine meridionale della Libia, creando, con il sostegno di essa, centinaia di “centri di accoglienza”, che in verità fungono tutt’ora da centri di detenzioneHuman Rights Watch nel suo report del 2017 dimostrava, infatti, i maltrattamenti, le estorsioni e le violenze sessuali di cui sono vittime le persone detenute, costrette inoltre al lavoro forzato. La situazione per chi è riuscito a sbarcare in Italia si complica con i nuovi decreti sicurezza, approvati dal governo Conte. Il primo decreto elimina la protezione per motivi umanitari, togliendo il permesso di soggiorno a persone che scappano da situazioni di conflitto, persecuzioni, disastri ambientali e gravi eventi. La maggior parte dei rifugiati in Italia rientra in questa categoria, che attualmente si ritrova in una condizione di illegalità e forte instabilità. I centri di accoglienza in Italia sono stati, nel frattempo, smantellati e dopo qualche mese, con l’approvazione del decreto sicurezza bis, si concretizza l’avversione contro le ONG ed i soccorsi in mare. Con il secondo decreto, infatti, si stabilisce che il ministro dell’Interno, in quel periodo Matteo Salvini, può decidere se vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, per non favorire “l’immigrazione clandestina.” Le operazioni di salvataggio in mare, in realtà, sono caratterizzate da torture e violenze, come dichiara il documento ufficiale dell’UNCHR (L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) di settembre 2018:

“Durante le operazioni di soccorso/intercettazione in mare, la Guardia Costiera libica è stata coinvolta in violazioni dei diritti umani di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, compreso il deliberato affondamento di imbarcazioni con armi da fuoco. La Guardia Costiera libica è stata anche accusata di collusione con le reti di traffico di migranti. Contemporaneamente, l’attività delle imbarcazioni di salvataggio delle organizzazioni non governative (ONG) è stata assoggettata a crescenti restrizioni.”

(Rapporto UNHCR, settembre 2018)

Centro di detenzione a Misrata. Foto: Sara Creta

Le ONG, dunque, vengono bloccate nel soccorrere i migranti, mentre la Guardia costiera libica, gestita da milizie e finanziata dal governo italiano, agisce indisturbata nel riportare migliaia di esseri umani in Libia. Uno dei rapporti di Amnesty International nell’aprile 2019 dichiara:

“Circa 3000 migranti e rifugiati sono intrappolati nei centri di detenzione di Abu Salim, Gharyan e Qasr bin Ghasher, vicino ai combattimenti. Finora l’Alto commissariato Onu per i rifugiati è stato in grado di facilitare il trasferimento, presso la sua Struttura di transito e partenza, di 150 rifugiati del centro di detenzione di Ain Zara. I tentativi di organizzare ulteriori trasferimenti di rifugiati da altri centri di detenzione sono stati resi vani dall’impossibilità di accedervi e da problemi di sicurezza.”

Il premier Conte con Fayez al-Sarraj – Ufficio stampa Palazzo Chigi /Ansa

I governi cambiano, i partiti anche, ma le logiche di potere rimangono.
Arriviamo nel 2020, nel presente. Nuovo governo, PD e M5S, stesse condizioni e stessi accordi. Il 2 febbraio 2020 è stato rinnovato il Memorandum di Intesa tra Italia e Libia, confermando i finanziamenti economici alla guardia costiera, oltre che ai campi di detenzione ed a tutto quel sistema di morte e repressione sulle coste del Nord Africa. Dopo il rinnovo, sono immediatamente arrivate le polemiche in Parlamento e nell’opinione pubblica, spronando il governo stesso a modificare l’accordo del 2017. Il secondo governo Conte, quindi, decide il 9 febbraio di richiedere al governo libico alcune modifiche sul Memorandum. Gli emendamenti comprendono soprattutto la presenza dell’Onu in Libia sempre più ostacolata dalla guerra in corso. La richiesta di modifica tuttavia non è riuscita a placare i dubbi sulla possibilità effettiva di migliorare la condizione degli stranieri nei centri di detenzione, in un Paese che non riconosce la convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e in cui è estremamente difficile operare per le organizzazioni internazionali. La violazioni dei diritti umani in Libia è ormai evidente, l’UNCHR il 30 gennaio 2020 sospende il suo lavoro di aiuto umanitario presso il Gathering and Departure Facility temendo per la sicurezza delle persone all’interno del centro situato a Tripoli.

In un silenzio agghiacciante i Paesi democratici, intanto, continuano ad addestrare trafficanti di esseri umani, come Abd al-Rahman al- Milad, più conosciuto come Bija, accusato dalle Nazioni Unite di essere uno dei più potenti trafficanti. Nell’intervista di Francesca Mannocchi, il ragazzo dichiara di essere arrivato in Italia nel maggio del 2017, invitato da OIM (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Durante l’intervista, Bija ringrazia il contributo del governo italiano affermando:

“Prima dell’arrivo delle motovedette italiane la Guardia costiera libica era debole, lavoravamo solo con uno Zodiac di sette metri. Dopo gli accordi con l’Italia abbiamo rimesso in mare una motovedetta, la Tallil. E quando abbiamo ricevuto le motovedette eravamo sempre in mare, ne recuperavamo a migliaia. Partivano da tutta la costa, da Sabratha, da Zuwara, ma li prendevamo subito. Se i migranti vengono catturati poi non si fidano più dei trafficanti. Volevamo questo. E poi abbiamo cominciato a prendere i motori e bruciare i gommoni. Era il modo di dire: è finita.”

(Bija, 2019)

Nel 2020, nella relazione tra Italia e Libia si riconferma l’eco del colonialismo, alimentato dalla violenza, dal sangue, dal denaro e dagli interessi politici. 

“Oltre il filo di spine che segna il confine,
oltre un sole di ghiaccio che uccide c’è la fine del viaggio e c’è una bocca che ride.
Oltremare.”

(Danno, Raffaele Casarano, “Oltremare”)

Una donna sporge le mani tra le sbarre della sua cella, in un centro di detenzione in Libia © UNICEF/UN052608/Romenzi

McMay