Alternativa #1: DESCOLARIZZARE LA SOCIETÀ

All in all it’s just another brick in the wall

Il 2020 sarà sicuramente ricordato nella storia umana come un anno di profondi cambiamenti. La pandemia del coronavirus, con le sue conseguenze globali, ha modificato le abitudini, le certezze ed i legami personali di tutti noi. Per quanto si cerchi di tornare alla “normalità”, alla routine solita, la quotidianità di ognuno di noi è oramai profondamente cambiata e questa emergenza, in primis sanitaria e successivamente umanitaria, ha dato luce a diverse condizioni di crisi già in corso in molti paesi.

La crisi come opportunità

Nella comune terminologia corrente, il termine “crisi” ha assunto un’accezione negativa ed è associato ad una situazione che peggiora: recessioni economiche, guerre, condizioni di povertà e diseguaglianza sono tutti scenari definiti “critici”. Solitamente, siamo abituati a pensare che, dinanzi ad una difficoltà, non si sia nelle condizioni di compiere decisioni propositive e, nonostante le possibilità di cambiamento offerte dagli ostacoli, dopo la crisi si cerca di ripristinare l’ordine precedente, l’ordinario.

Un frame tratto dal videoclip di “Another Brick In The Wall” dei Pink Floyd, 1979

Tuttavia, la parola “crisi” ha radici arcaiche che risalgono all’antica Grecia e, soprattutto, cela un significato originale molto diverso da quello che conosciamo: etimologicamente, “crisi” deriva dal termine krino”, che significa cernere, discernere, giudicare, valutare”. Quindi, la “crisi” non rappresentava originariamente la difficoltà in sé, bensì l’istante prima delle scelte, quel momento in cui bisognerebbe analizzare il cambiamento intorno a noi. Potremmo dire che, nella Grecia antica, la vita era dunque una continua crisi. D’altronde, ogni giorno può essere crisi, inteso come un’occasione di rinascita.
Ciò nonostante, nei momenti difficili della realtà attuale, la paura non facilita la riflessione e, troppo spesso, la “normalità” sembra l’unica certezza a cui voler affidarci, ancora una volta.
La sfida globale che stiamo affrontando, d’altro canto, ha fatto emergere la necessità di trovare nuovi modelli e modi di “vivere collettivamente”, a dimostrazione che nessuno è avulso dal cambiamento. Siamo animali sociali e abbiamo continuamente bisogno di interagire con altri individui: non a caso, specie in periodi d’emergenza come questi, la comunicazione e la cultura risultano fondamentali e non cessano di esistere, ma continuano piuttosto a resistere, reinventandosi.

In una società sempre connessa, la vita in rete ricopre un ruolo necessario per l’interazione sociale e, mai come adesso, settori come l’informazione e l’istruzione trovano spazio nel Web.

Soffermiamoci sull’istruzione: la scuola è stata una delle prime istituzioni ad essere coinvolta dai cambiamenti dovuti alla quarantena: migliaia di studenti si sono ritrovati a dover frequentare lezioni a distanza tramite piattaforme digitali, spesso affrontando condizioni di digital divide a causa delle differenti possibilità economiche e tecnologiche individuali. Un po’ come ai tempi dell’istruzione elitaria.
Prima della nascita delle scuole pubbliche, infatti, in quasi tutto il globo l’istruzione era affidata alla famiglia e solo in pochi avevano la possibilità di essere seguiti da un professore, rigorosamente privato. La didattica era dunque limitata ad una ristretta cerchia sociale e, spesso, la cultura rappresentava il marchio di una determinata élite.

A Gentleman Reading in the Library” – Johann Hamza (1850-1927)

In seguito alla diffusione delle scuole pubbliche del XIX secolo, l’istruzione divenne finalmente un diritto per (quasi) ogni fascia sociale.Ad ogni modo, i suoi legami di dipendenza dal mondo economico, seppur cambiati nel tempo, sono tutt’ora concreti e tangibili, rendendo ancora oggi l’educazione un bene non accessibile a tutti in ugual misura. D’altronde la salute, l’apprendimento, l’indipendenza individuale e la creatività si identificano oggi, per la maggior parte dei casi, con istituzioni che dipendono dall’economia. Non è un caso che la scuola, detentrice del monopolio dell’istruzione, pur avendo uno dei compiti più importanti per la formazione del singolo, venga oggi concepita -citando Goffman– come “un’istituzione totale”,  con l’eccezione che gli alunni non sono costretti a trascorrere tutto il loro tempo al suo interno. Nella sua struttura, competizione, autorità e disciplina rappresentano prerogative del sistema, identificato dallo stesso edificio istituzionale.

In un mondo in cui è quasi tutto quantificabile, anche i valori scolastici sono tali. Lo studente è costretto a misurare la propria intelligenza e curiosità attraverso dei numeri. Il professore, oltre alla sua funzione di insegnante, assume i panni del giudice e, tramite verifiche di apprendimento, affibbia un voto ad ogni singolo lavoro dell’alunno. L’apprendimento, quindi, non è spontaneo, ma dettato da un programma prestabilito e mediato dal professore, considerato come una figura “separata” dall’alunno. Questa separazione, negli anni argomento di molte critiche, analisi e discussioni in ambito sociologico e pedagogico, risulta ancora più evidente e rimarcata nell’attuale didattica virtuale.
Le discussioni a riguardo risalgono addirittura all’800, quando molti studiosi iniziarono a criticare il sistema scolastico, tendente verso un modello educativo paternalistico. Uno dei primi pensatori ad opporsi a tale modello fu Lev Tolstoj: pedagogista e scrittore russo, durante un viaggio in Europa notò un generico comportamento svogliato ed apatico degli studenti, identificandone la causa nei processi educativi stessi e non nel carattere degli alunni. Tolstoj, nei suoi scritti, denunciò il metodo educativo dell’epoca -definendolo limitante per l’intelligenza- e propose una pedagogia basata sull’autonomia del bambino, considerato come un essere in grado di pensare, ragionare e prendere decisioni.

Lev Tolstoj, immortalato mentre dialoga con alcuni bambini

La sua teoria, tuttavia, si scontra oggi con un’educazione sempre più influenzata delle logiche politiche ed economiche: “un’educazione bancaria”, in cui il professore è il depositante e gli studenti depositi vuoti da dover riempire (con o senza imbuto). Il dialogo è sostituito dall’imposizione passiva delle nozioni destinate all’alunno, che riceve, archivia e memorizza meccanicamente le dispense impartite dall’insegnante. Ciò significa la scuola è il solo ente riconosciuto e designato a trasmettere il sapere, quel sapere che viene quantificato esclusivamente da diplomi e titoli accademici. La scuola, quindi, insegna ad entrare nel mondo degli adulti, in un contesto lavorativo dove immaginazione e fantasia vengono sostituiti da compiti ed obiettivi.

Esiste un’alternativa a questo modello scolastico?

Le forme di apprendimento di un individuo non sono univoche, ma determinate da fattori e intermediari diversi, che spesso prescindono dalle figure istituzionali. L’apprendimento spontaneo di un essere umano, in particolare, caratterizza principalmente i suoi primi anni di vita e, in realtà, determina l’acquisizione di conoscenze fondamentali esterne all’istituzione scolastica.
Partendo da questo presupposto, alcuni studiosi hanno proposto e sostenuto un processo di “descolarizzazione”, considerandolo come una possibile alternativa al modello scolastico dominante. Tale termine fu coniato negli anni Settanta da Ivan Illich, un pedagogista austriaco che, nel suo celebre libro “Descolarizzare la società”, criticava il sistema scolastico e l’intera società scolarizzata. Nell’analisi di Illich, la scuola è definita al servizio di interessi particolaristici (su tutti, quelli economici) e, in quanto tale, antieducativa e indottrinante, caratterizzata da competizione e rituali.

“La scuola non favorisce né l’apprendimento né la giustizia, perché gli educatori insistono a mettere nello stesso sacco l’istruzione e i diplomi. L’apprendimento e l’assegnazione dei ruoli si fondono in una cosa sola. Ma apprendere significa acquisire in proprio una nuova capacità o una nuova conoscenza approfondita, mentre si è promossi grazie a un giudizio che altri si è formato. L’apprendimento è spesso un risultato dell’istruzione, ma la selezione per un ruolo o per una categoria nel mercato del lavoro dipende in misura sempre maggiore dalla mera durata della frequenza scolastica.”

Ivan Illich, Descolarizzare la società, 1971

Ivan Illich

L’alternativa di Illich si contestualizza in una società avulsa dalla delega istituzionale e dai percorsi preconfezionati che dipendono, specialmente, dalla carriera scolastica. La sua proposta prevede la creazione di reti educative libere, in cui genitori, figli ed educatori collaborano in modo volontario per una formazione autonoma dell’individuo. Lo studente ha, quindi, la possibilità di scegliere l’itinerario educativo in base a suoi interessi o bisogni ed il pedagogista, in questo contesto, aiuta il ragazzo a raggiungere la propria meta, attraverso consigli e suggerimenti.
Illich non demonizza la figura del maestro, poiché è da sempre presente in molte discipline: piuttosto sostiene che, per stimolare realmente l’interesse dell’allievo, l’insegnante non ha bisogno di impartire dogmi. Come affermava Thomas Kuhn negli anni ’60, la guida non deve aver sempre ragione, specialmente in un contesto in cui i paradigmi mutano velocemente e, quasi tutte le guide, con il tempo sembrano aver torto.

Ciò che risulta fondamentale nella chiave interpretativa di Illich è l’ipotesi di un rapporto tra maestro ed allievo svincolato da qualsiasi prezzo, che sia per entrambi un momento di crescita e di privilegio.

L’eredità intellettuale lasciata dagli scritti di Illich (condivisa e raccolta da molti pedagogisti), ha permesso alla sua teoria di svilupparsi e prendere vita nella società contemporanea. Oggi, ispirandosi a tale eredità, sono attive nel mondo molte esperienze educative di tipo libertario. In Italia ci sono vari esempi sul territorio, che costituiscono attualmente la Rete per l’Educazione Libertaria.
I ragazzi, in questi luoghi, hanno la possibilità di scegliere liberamente per sé stessi cosa apprendere e partecipano alle decisioni che riguardano ogni ambito organizzativo del gruppo, con il pari riconoscimento e la stessa libertà di parola dell’adulto.

“I bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze sono sempre portatori di esperienze, competenze e inclinazioni dotate di valore. Al bambino viene riconosciuta piena capacità di scegliere. Questa si concretizza nella opportunità di decidere su contenuti e metodi del proprio apprendimento e nella partecipazione paritaria alle attività che regolano la scuola. Partendo dall’espressione delle proprie necessità (conoscitive, pratiche) il bambino ha la possibilità di sperimentare nei propri tempi e modi le conseguenze delle proprie scelte e la relativa assunzione di responsabilità. In questo modo egli acquisisce consapevolezza di sé nel mondo e cresce nella capacità di autostima ed autovalutazione. “

Gruppo Operativo Rete Italiana per l’Educazione Libertaria, Gennaio 2011

Questa crisi che stiamo vivendo, che coinvolge l’educazione e il futuro delle nostre generazioni, evidenzia la necessità di considerare nuovi modelli di convivenza che valorizzino l’infanzia, le inclinazioni, i sogni e la curiosità umana.

A tal proposito, mi piacerebbe concludere con le parole di Silvano Agosti, che nel suo libro “Lettere dalla Kirghisia” ci trasporta in una società diversa, che guarda il futuro con occhi nuovi.

“Oggi ho chiesto di visitare le scuole. Pensavo di entrare, come da noi, in grandi edifici suddivisi in aule, invece mi hanno portato in una decina di parchi, colmi di bambini e di giovani intenti a giocare. […] Cosa desiderano il novantanove per cento dei bambini, ragazzi o giovani nel mondo? Desiderano giocare, e infatti qui in Kirghisia semplicemente giocano, qui, dove tutto viene relazionato ai desideri degli esseri umani.
– Ma se giocano tutto il giorno, quando studiano?- Obbietto al mio accompagnatore.
Mi sorride.
-Loro non studiano, imparano.
– Cioè?-
[…] Mi accompagna ai margini del parco, spiegandomi che il meccanismo dell’imparare è permanente e più rapido di quello collegato allo studio, che, essendo quasi sempre obbligatorio, non penetra a fondo nella memoria conoscitiva e svanisce rapidamente con il trascorrere del tempo. Lo studio impone l’apprendimento e quindi non nasce da un interesse o da un desiderio, ma da un obbligo.” 

Silvano Agosti, Lettere dalla Kirghisia, 2011

McMay
artwork: LaCirasa