Quanto siamo dipendenti dai social?

«Tutti i media hanno come primo fine quello di ammettere nella nostra vita percezioni artificiali e valori arbitrari.»

Marshall McLuhan


L’essere umano tende a costruire delle categorie per orientarsi e definire il mondo. Fin dalle prime civiltà, ogni persona ed ogni oggetto sono stati interpretati ed etichettati: basti pensare alla creazione della vita stessa, o del cosmo. Tuttavia queste rappresentazioni, pur derivando da interpretazioni soggettive, sono state oggettivate da un élite che andava a costruire la cultura dominante. Ogni persona, dunque, indossa una maschera socialmente fabbricata: la religione, ad esempio, è stata una delle prime istituzioni ad
 utilizzare il potere simbolico per rappresentare la realtà. Facendo leva sulla psiche umana e sulle più grandi paure dell’essere umano, cioè la morte e la solitudine, la religione cerca di fornire un senso alla vita che viene addirittura attribuito ad un’esistenza oltre la morte, riuscendo a superare il grande ostacolo della mortalità.
Quello che più caratterizza l’essere umano è la consapevolezza del tempo che scorre, scandito da minuti, ore ed anni. Per questo siamo alla continua ricerca di mille diversivi per sfuggire all’incessante scorrere dei secondi. Diversivi che appagano la ricerca di felicità e benessere. Tuttavia, con l’aumento sempre maggiore degli umani sulla Terra, anche le élite più tradizionali sono state via via affiancate ad altri gruppi che competono per creare valori validi, utili per il mantenimento di un determinato ordine. La socializzazione, che fino a poco tempo fa era garantita principalmente dalla famiglia,  dalle religioni, dalla scuola e del lavoro, si è via via trasmessa anche attraverso l’innovazione tecnologica e la diffusione dei media. Possiamo renderci conto dell’influenza delle pratiche mediali sulla società, intesa come un insieme di processi che si intrecciano, dalla sempre più frequente dipendenza dai media per la costruzione del sociale. Tutto ci appare mediato e i media tradizionali e nuovi, come afferma Sonia Livingstone, “riplasmano le relazioni non solo fra organizzazioni mediali ed i loro pubblici ma fra tutte le istituzioni sociali, come il governo, il mercato, la famiglia, la chiesa ecc.”
La comunicazione è da sempre lo strumento più importante per la costruzione del mondo sociale e culturale e, con l’avvento dei nuovi media, sicuramente tale processo è radicalmente cambiato. Risulta difficile individuare un “campo” sociale che non sia coinvolto da una pratica mediale o da una diffusa mediatizzazione, soprattutto per i nativi digitali. Come il lavoro di stampo borghese ha drasticamente cambiato le abitudini ed il modo in cui gestire il tempo, così l’arrivo della televisione e, successivamente, di internet e degli smartphones ha modificato le pratiche sociali.
L’arrivo del web, nella realtà, è stato un processo in divenire, conseguente alla capacità di omologare diverse generazioni nel ripetere determinate abitudini ogni giorno, come aprire il giornale ogni mattina o accendere la televisione ogni sera.

Per comprendere il carattere rivoluzionario dei media e dei nuovi media, Bourdieu paragona il loro potere alla “violenza simbolica legittima” di monopolio statale: lo Stato agisce su tutte le sfere sociali attraverso il “campo del potere”, che si erige al di sopra dei campi specifici. Il potere dello Stato e dei media sembrano coinvolgere, quindi, qualsiasi altra sfera, assumendo la dimensione di “meta-capitale” per le loro capacità di influenzare altri campi. Così economia, politica e nuovi media concorrono per un monopolio sulle coscienze. “L’oppio dei popoli”, soprattutto nelle società secolarizzate e occidentali, non sembra più essere rappresentato  dalla religione, ma dall’attaccamento emotivo e cognitivo ad internet. Il determinismo tecnologico ha influenzato il modo di apprendere, di fare politica e anche di scambiare o accumulare ricchezza. Anche la figura del consumatore è variata: con l’arrivo dei social network e l’utilizzo sempre più frequente di tali strumenti, l’essere umano è diventato sia produttore di contenuti (post, foto, video, commenti, dati personali, feedback ecc ecc) che consumatore di contenuti esterni, a loro volta creati da altri utenti. Questo nuovo mercato, a differenza del passato, non si regge più sulla manodopera degli individui, ma sulla produzione e condivisione di idee, pareri e preferenze su qualsiasi argomento.

 

Ci stiamo costruendo una maschera sempre più digitale e meno reale?

Viene da chiedersi: come mai migliaia e migliaia di esseri umani hanno deciso di concedere una mole di dati sensibili e di mostrare senza remore le proprie abitudini sulle piattaforme digitali?

Non esiste più un tempo dedicato esclusivamente all’attività in rete, o meglio: ci può essere, ma l’utilizzo di Internet è costante nella giornata di ogni utente ormai, a prescindere dall’età.
L’essere connessi è lo stato principe dell’uomo del ventunesimo secolo e, per quanti innegabili vantaggi questo progresso abbia potuto portare, gli svantaggi non possono essere ignorati.

Ogni volta che otteniamo likes o commenti sui social network riceviamo una piccola “gratificazione”. In termini chimici e biologici, veniamo investiti da una leggera scarica di dopamina, un neuro-trasmettitore coinvolto nella regolazione dell’umore, del comportamento e della motivazione nell’essere umano. In sintesi, gli stimoli che producono motivazione e ricompensa nell’essere umano contribuiscono al rilascio di dopamina: il sesso, il cibo, l’arte, ma anche le sostanze stupefacenti ne agevolano il rilascio e, di conseguenza, determinano il nostro umore. Tuttavia, eccessivi livelli di dopamina possono causare psicosi, come accade ad esempio nelle dipendenze dal gioco d’azzardo compulsivo. Questo meccanismo si chiama sistema di rinforzo intermittente positivo.
Inoltre, l’utente sui social network può crearsi una nuova personalità, rimodellando il suo essere in base a quello che desidererebbe diventare. Il social network è utilizzato, quindi, come catalizzatore sociale: ogni utente cerca di amplificare -o creare ad hoc- caratteristiche che lo rendano socialmente desiderabile, a scapito ovviamente di tutte le altre “meno appetibili”, ovvero a scapito della sua reale identità. Questa nuova socialità, unita all’incessante proliferare di contenuti, può procurare confusione tra la realtà proposta online e quella offline. Per questo motivo, l’utente sente la continua necessità di partecipare all’interno della sua community in rete.

«Il coinvolgimento dell’utente (engagement) è una dimensione dell’esperienza d’uso che presuppone che l’utente sia coinvolto, curioso, motivato, attento e percepisca un buon livello di controllo della situazione. Variabili che agiscono sul coinvolgimento sono l’estetica, l’attrattività sensoriale, alcuni affettivi (emotivi) indotti dalla tecnologia, il tipo e il livello di sfida che ci si propone, la motivazione. La capacità di coinvolgere l’utente è per esempio una prerogativa fondamentale dei buoni videogiochi. […]»

“Human Computer Interaction, fondamenti dell’interazione tra persone e tecnologia”
L. Gamberini, L. Chittaro, F. Paternò – Pearson Italia


Oltre alla partecipazione, esiste un altro fattore che incrementa l’utilizzo dei social network: la FoMO, acronimo di Fear of Missing Out, “paura di essere tagliato fuori”. Questa fobia è sempre esistita negli esseri umani, ma è drasticamente aumentata con l’avvento delle piattaforme digitali. Tale condizione non fa altro che accrescere il senso di isolamento degli individui, incrementando a sua volta il livello di FoMO: un perfetto circolo vizioso.
Lo psicologo Andrew Przybylski ha individuato alcuni parametri per definire scientificamente questa condizione:

  • La FoMO è una forza trainante che influenza il modo di utilizzo dei social network.
  • I livelli di FoMO sono più alti nei giovani utenti, in particolare quelli di sesso maschile.
  • Bassi livelli di soddisfazione (della propria vita o dei propri bisogni) sono collegati ad alti livelli di FoMO.
  • La FoMO è maggiore in quelli che sono soliti guidare distrattamente, utilizzando spesso lo smartphone.
  • La FoMO è maggiore negli studenti che utilizzano i social network durante le lezioni.

Quindi, potremmo affermare che l’utilizzo incessante dei social network ha stravolto la nostra percezione di noi stessi e del mondo intorno e, sicuramente, comporta una maggiore distrazione verso la realtà sociale al di fuori di internet. Possiamo dunque parlare di un’alienazione 2.0 e di una nuova forma di dipendenza verso il mondo virtuale. Inoltre, emerge quanto siano soprattutto i più piccoli, i cosiddetti nativi digitali, ad usare maggiormente i social network, venendo completamente assorbiti per ore e ore. Ogni momento libero, ogni viaggio, ogni espressione più carina viene automaticamente postata sul profilo digitale, sostituendo le emozioni che proviamo nella vita offline con le scosse di dopamina che ci arrivano dalla rete.

Specialmente nell’età adolescenziale, periodo in cui l’identità è in via di sviluppo, le piattaforme online risultano cruciali per l’autostima e l’integrazione sociale. Di conseguenza, quando un utente non riceve i feedback aspettati -o ne riceve meno rispetto ai contenuti postati da altri- possono emergere una serie di problemi psicologici, tra cui la depressione e l’ansia.
Sono numerosi gli studi che, negli ultimi anni, hanno contribuito ad aprire una riflessione sull’utilizzo dei social e, soprattutto, ci stanno aiutando a comprendere quanto questi ultimi non siano mezzi neutri, bensì strumenti che hanno un forte potere sui singoli e, di conseguenza, sulla collettività. Ad esempio, le ricerche di PsycINFO, Medline, Embase, CINAHL e SSCI  hanno mostrato che vi è una relazione tra il benessere psicofisico degli adolescenti (tra i 13 e i 18 anni), i social network e l’emergere di depressione, ansia e stress psicologico. I dati mostrano, infatti, una relazione positiva tra tempo speso sulle piattaforme digitali ed insorgenza o aggravamento di problemi psicologici. In particolar modo, sono stati rilevati numerosi picchi di sintomi depressivi. In sintesi, maggiore è l’investimento di tempo sui social e maggiore è la probabilità di riscontrare depressione negli adolescenti.  Inoltre, un’indagine della Royal Society for Public Health Brittanica coadiuvata da Young Health Movement, svolta su 1479 giovani tra i 14 e 24 anni, individua in Instagram la piattaforma che più contribuisce a peggiorare la salute mentale (le altre piattaforme sottoposte allo studio erano Facebook, Twitter, Snapchat e YouTube).


Cosa rende Instagram più pericoloso?
Secondo i ricercatori, mostrare quotidianamente e con ostentazione -soprattutto da parte degli influencers- una vita quasi perfetta, tanto piena di benessere e divertimento quanto priva di preoccupazioni concrete, contribuisce a scaturire in followers e seguaci condizioni di disagio. Ciò potrebbe, di conseguenza, provocare depressione e senso di inadeguatezza ed inferiorità. Inoltre, la continua esposizione del proprio aspetto fisico, spesso ritoccato dai filtri, contribuisce a creare un clima di competizione malsano, dovendo ogni individuo necessariamente e perennemente mostrarsi come “socialmente appetibile”, possibilmente più degli altri.

«È interessante notare che Instagram e Snapchat, i peggiori in classifica per il benessere e la salute, siano entrambe piattaforme che ruotano intorno all’immagine e sembra che possano condurre a sentimenti di inadeguatezza e ansia fra i più giovani.»

Shirley Cramer, amministratrice delegata della Royal Society


L’appagamento che otteniamo tramite i like, inoltre, dura pochissimo: più siamo dipendenti dai feedback altrui e più la fiducia in noi stessi diminuisce, dovendo continuamente pensare al prossimo contenuto da postare e mostrare.
I social media sfruttano quindi il nostro bisogno di andare alla ricerca di ricompense, inducendoci al controllo frenetico e perpetuo delle notifiche di Facebook, Instagram, TikTok, Twitter, WhatsApp, email… Creando, in sintesi, la dipendenza da smartphone e social network
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Scena tratta dal documentario “The Social Dilemma”

I creatori delle piattaforme digitali sapevano di stravolgere la società con l’avvento dei social?

Chamath Palihapitiya, ex responsabile della crescita di Facebook, intervistata nel documentario The Social Dilemma, ha recentemente dichiarato: Volevamo capire come manipolarti il più rapidamente possibile e poi darti una botta di dopamina. L’abbiamo fatto magistralmente in Facebook”. Anche Sean Parker, fondatore di Napster ed ex presidente di Facebook, ha dato una versione simile:

«È esattamente il genere di cose a cui penserebbe un hacker come me, perché si sfrutta una fragilità della psicologia umana. Penso che noi – inventori e creatori: io, Mark (Zuckerberg), Kevin Systrom di Instagram, tutte queste persone – l’abbiamo capito consapevolmente e l’abbiamo fatto lo stesso.»

Ormai, la dipendenza dai social network è dimostrata e, soprattutto dopo l’uscita di The Social Dilemma, questa scoperta si è diffusa anche nel mainstream, valicando la circoscrizione degli studi psicologici e sociologici o le strategie adottate dalle aziende della Silicon Valley. Il documentario, presentato il 26 gennaio 2020, analizza la diffusione dei social ed i relativi problemi psicologici, anche attraverso le interviste ad ex programmatori, fondatori e sviluppatori. Possiamo parlare di una vera e propria manipolazione attraverso l’utilizzo di varie tecniche. Tra queste, emerge il data mining, ovvero l’estrazione di informazioni utili a prevedere ed anticipare il comportamento medio degli utenti. I metodi utilizzati per attirare la nostra attenzione sono molteplici: tramite i nostri interessi palesati sulle piattaforme, si definiscono gli algoritmi che rappresenteranno la nostra personalità in rete. Nell’incessante scorrere del feed, agli occhi di ogni singolo utente appare principalmente ciò che a quell’utente già piace: i contenuti che gli vengono mostrati e proposti, di volta in volta, dipendono da quelli su cui l’utente stesso si sofferma per più tempo; le stesse notifiche diventano strumenti per veicolare la nostra concentrazione sullo smartphone, come se ci parlasse.

Essere consapevoli di determinati meccanismi celati dietro questa nuova pratica sociale potrebbe rivedere il nostro modo di utilizzare questi strumenti, limitandone l’utilizzo e riscoprendo la felicità che deriva, invece, da un momento vissuto nella vita offline e al di fuori dei circuiti digitali.
Potrebbe non essere troppo tardi per canalizzare le nostre energie principalmente nella realtà sociale, dedicando soltanto un piccolo spazio in tutta la giornata all’utilizzo dello smartphone. Dato che i giganti della tecnologia non forniscono delle reali soluzioni al problema (essendo completamente opposto il loro interesse), l’unica via d’uscita dipende da noi stessi: le nostre decisioni di consumo e concessione dei dati possono influenzare queste piattaforme. Possiamo imparare ad utilizzarle in modo sano, senza diventarne dipendenti.


«Abbiamo creato un mondo in cui la connessione online è diventata basilare, soprattutto per le generazioni più giovani. Tuttavia, in questo mondo, ogni volta che due persone si connettono, l’unico modo per finanziare il tutto è attraverso una terza persona, che furtivamente paga per manipolarle. Quindi abbiamo creato un’intera generazione globale di persone cresciute in un contesto in cui il significato stesso della parola comunicazione, della parola cultura, è connesso all’idea di manipolazione. Abbiamo messo l’inganno e la furtività al centro di tutto ciò che facciamo.»

Jaron Lanier – Fondatore della realtà virtuale

artwork: Matissec

McMay