L’ALBATRO n.5: “London Bloody Friday”

La coltre sale densa su per le narici, pare gelare anche i pensieri. Londra cela le proprie ombre tra la nebbia, così fitta che si può sentire attraverso la pelle, nelle ossa. Vivere qui deve essere spesso spaventoso, ma non è paura ciò che si respira. Alienazione sì, ma non paura. I volti più diversi si confondono per le strade: la fretta mangia il tempo, qualcuno cerca di rallentare, ma è già tardi. Eppure, anche qui, qualche volta, il tempo pare fermarsi.

Da sempre, la capitale del Regno Unito rappresenta un simbolo internazionale di innovazione, sia nel campo tecnico che in quello sociale. Ciò nonostante, negli ultimi decenni il significato insito all’essere londinese è stato frammentato e decontestualizzato in modi diversi, come, ad esempio, nel caso della Brexit: ci si ritrova a vivere nella capitale europea per eccellenza, ma fuori dall’Europa. Tuttavia, non è di questo che voglio parlare oggi.

E’ il 27 Novembre, giorno del Black Friday, ora di punta. I marciapiedi del London Bridge sono imballati di gente. Tutto sembra procedere come ogni altro giorno (fatta eccezione per il viavai, più compulsivo del solito, dovuto al tanto attesto giorno degli acquisti pazzi), almeno apparentemente.
Sono le ore 14: un uomo brandisce un coltello e si dimena tra la folla, attaccando ed uccidendo due persone e ferendone altre otto. Il suo nome è Usman Khan, 28enne pakistano, già arrestato nel 2010 in un’operazione antiterrorismo, accusato di affiliazione ad una cellula, legata ad Al-Qaeda, che stava progettando un attentato senza precedenti: la distruzione totale della Borsa di Londra. Era tuttavia a piede libero dal 2018, ma soggetto a controllo elettronico tramite braccialetto, almeno in teoria. Il suo nuovo attentato verrà, dopo poche ore, rivendicato dall’ISIS sul web.

Nelle recenti dinamiche del terrore a cui abbiamo assistito, solitamente, a questa fase segue il panico della gente, la fuga, le urla di aiuto e l’isolamento dell’attentatore. Questa volta, però, non va esattamente così: sin dai primi istanti, l’avventore si ritrova circondato da una folla inferocita, più che intimorita. I passanti accorrono da ogni direzione, intervenendo prontamente contro Khan aggredendolo, disarmandolo, immobilizzandolo ed evitando così l’uccisione di un’altra donna. Alcuni uomini lo trattengono fino all’arrivo dello Scotland Yard, per ben 11 minuti. Tra questi, un individuo in particolare attira l’attenzione della folla circostante, che intanto riprende tutto meticolosamente: si tratta di James Ford, un uomo apparentemente comune, in tenuta d’ufficio, che si avventa sull’assalitore e gli sottrae il coltello, per poi allontanarsi rapidamente. Gli agenti quindi sopraggiungono, scostando i coraggiosi intervenuti e neutralizzando (brutalmente) in pochi secondi l’attentatore, dotato di un falso gilet esplosivo (come si scoprirà successivamente).

A questo punto, però, iniziano ad affiorare dei dubbi. Il primo elemento da sottolineare evidenzia come, sicuramente, la situazione si sarebbe potuta gestire in maniera diversa: Usman Khan era immobilizzato, con le mani dietro la schiena e la faccia a terra, già da svariati minuti prima dell’arrivo degli agenti. In secondo luogo, gli stessi agenti dovrebbero essere addestrati e pronti a gestire situazioni ben più complesse di questa, puntando a neutralizzare l’obiettivo da vivo per carpirne quante più informazioni utili. Non voglia intendersi come dietrologia: è facile e spesso sterile parlare a posteriori, ma è anche lecito porsi delle domande, soprattutto quando si hanno a disposizione diverse testimonianze dell’accaduto.

Le immagini, infatti, si diffondono istantaneamente, scatenando i primi commenti, le condivisioni e i post di solidarietà che riempiono le bacheche dei social network, oltre ai soliti tentativi politici di strumentalizzare la vicenda. Tra questi, però, spiccano alcune critiche al sistema giuridico britannico, in particolare alla gestione delle libertà condizionate e vigilate. E’ proprio Chris Phillips, ex capo dell’antiterrorismo britannico, a sollevare la questione agli occhi dell’opinione pubblica, criticando il sistema penale per troppa negligenza.

Peccato, però, che in libertà vigilata si trovi anche James Ford, l’uomo intervenuto disarmando Khan: operaio e lottatore amatoriale, era stato condannato nel 2004 per l’omicidio di Amanda Champion (una 21enne disabile di Ashford) ed aveva ricevuto l’ergastolo dopo essere stato ritenuto instabile e pericoloso, poiché sprovvisto di movente per il suo gesto. Di recente era stato rilasciato con permessi speciali e braccialetto elettronico al seguito, dopo i 15 anni minimi di carcere duro previsti dall’ordinamento inglese. Chi di braccialetto ferisce, di braccialetto perisce.

Al di là delle critiche strutturali che potremmo porre al sistema carcerario in sé, inteso globalmente con fine detentivo e quasi mai (a livello pratico) realmente “riabilitativo”, è importante sottolineare quanto la gestione spesso superficiale della questione evochi, frequentemente, contraddizioni e tragiche conseguenze nella società. Strumentalizzare ulteriormente ciò che è accaduto, indirizzando la discussione verso un inasprimento, porterebbe, semplicemente, altra paura. Ed è effettivamente quello che ha cercato di evidenziare David Merritt, padre di Jack Merritt, una delle due vittime dell’attentato di venerdì scorso.
Come anticipato, l’occasione di utilizzare questa vicenda per innescare un dibattito politico è risultata ghiotta per molti al di là della Manica. Lo stesso premier britannico Boris Johnson ha immediatamente colto la palla al balzo per polemizzare sulla questione, sostenendo di essere da sempre contrario alla libertà anticipata e promettendo azioni tempestive per frenare questo tipo di fenomeni. In Gran Bretagna, d’altronde, attualmente ci si trova in piena campagna elettorale: il 12 Dicembre ci sarà l’appuntamento con le urne ed ogni avvenimento può giocare un ruolo decisivo. Possiamo immaginare quali effetti potrà scatenare nell’opinione pubblica questo attentato, nel pieno centro di Londra, a sole due settimane dal voto. La richiesta di rispetto espressa da David Merritt è esemplificativa della posta in gioco: in Gran Bretagna si respira da anni un clima già bollente, acuito dalla propaganda politica incessante. Il dolore di chi perde un proprio caro non dovrebbe essere usato come pretesto per fini propagandistici o politici, soprattutto nel momento in cui si esprime la chiara richiesta di non strumentalizzare la morte a scopi puramente consensuali. Jack Merritt, ironia della sorte, collaborava con un’associazione che curava proprio il reinserimento dei detenuti nella società in seguito alla permanenza in carcere. Ennesimo tratto simbolico in una storia che, da quello che emerge, presenta svariati elementi contrastanti. 

Quello che più ci ha colpito in questa vicenda, tuttavia, è stato l’atto di reazione di una città stanca di piegarsi al terrore. Londra è una città multietnica, calderone di vite e radici diverse: reagendo in questo modo ha esplicitato la forte voglia di cancellare il clima di paura dalle sue strade, già teatro di analoghi attacchi negli ultimi anni, ma abitate quotidianamente ed armoniosamente da individui dalle nazionalità e culture più disparate. Gli avvenimenti di questi giorni hanno, inevitabilmente, riaperto nei londinesi cicatrici che sembravano rimarginate, mostrando tuttavia la chiara volontà di un popolo di non voler cedere al ricatto del timore e dell’insicurezza, terreni fertili per la proliferazione di movimenti che implicano, nelle idee propagandate, una limitazione delle libertà altrui.
La parte difficile, in questo caso, consisterà proprio nell’avere la capacità di guardare oltre le conseguenze di queste dinamiche che, il più delle volte, mirano a generare solo ed esclusivamente odio, su ogni fronte.

Mister O