IL PESO DELLE PAROLE: perché parliamo senza comunicare

A cosa serve comunicare? Quanti linguaggi esistono e quale rapporto ci lega ad essi?

Spesso si sente dire: “la musica è un linguaggio universale”, intendendo come i mezzi propri del suono siano capaci di trascendere i confini culturali e linguistici di un singolo popolo. Eppure le qualità della musica sono proprie anche delle parole. Anche le parole hanno una loro musicalità: sono caratterizzate da una frequenza, più o meno variabile, possiedono un timbro. Sono sensibili ad accelerando e rallentando, a pause e respiri, ad un’esposizione forte e in crescendo oppure piano, in diminuendo. Da un punto di vista formale, condividono persino le stesse strutture: la frase, il periodo, l’inciso. Stesso discorso per quanto riguarda i modi di trasmissione e replicazione: trasmissione orale, che si tramanda di bocca in bocca, come un brano di carattere popolare o una vecchia storia; trasmissione scritta per quanto riguarda una sinfonia o un saggio.
Gli spiriti più critici potrebbero opinare, a ragione, che la musica, come il linguaggio, è soggetta a mediazioni culturali. Ad esempio, il concetto di tonalità – associata a sentimenti allegri e gioiosi quando “maggiore” o malinconici e tristi quando “minore” – è del tutto relativa e risulta veritiera solo a patto di limitare il campo d’indagine alla civiltà occidentale. Se proponessimo infatti questa associazione ad un aborigeno australiano o ad un inuit dell’artico, probabilmente non otterremo la stessa risposta. Che dire inoltre del ritmo – forse prima vera espressione musicale – anch’esso elemento pregnante e costitutivo della comunicazione orale. Si può dire, quindi, che la parola e la musica condividano gli stessi obbiettivi.

Riflettendo sulle possibilità e potenzialità del linguaggio, un altro esempio, questa volta in ambito clinico, lo troviamo nella psicoterapia: una vera e propria terapia basata sulla parola. Nella storia della medicina, per contenere o provare a curare le turbe della psiche, si sperimentarono metodi barbari e disumani come la lobotomia o l’elettroshock, senza ottenere alcun risultato. Tali pratiche, tuttavia, furono considerate prassi per anni, fino a quando un medico viennese, noto come Sigmund Freud, capì che era possibile individuare la causa del malessere all’origine delle nevrosi, attraverso la relazione verbale fra terapeuta e paziente.

E’ possibile affermare, dunque, che ogni azione possieda un proprio specifico linguaggio?

Sono molteplici le implicazioni del linguaggio. Persino là dove non esiste il segno, è possibile codificare un insieme di significati e significanti che esprimano un contenuto. All’interno di questa molteplicità, però, ogni linguaggio detiene una propria irriducibilità – legata alla cosa in sé – che resiste ad una codificazione generale e, nell’attrito con essa, produce uno “scarto”. Che cos’è questo scarto? Il sentire.

Alcuni cerchi – Vassily Kandinskij, 1926

La differenza che passa tra l’ascoltare ed il sentire è la medesima che separa il parlare dal comunicare ed è qualcosa che ha a che fare con la corporeità. Siamo abituati a considerare mente e corpo come due entità distinte, eppure il nostro IO fa esperienza della propria “presenza al mondo” proprio attraverso esso. Da un punto di vista filosofico, penso che il parallelo più corretto lo si ritrovi nell’Ideologia Tedesca di K. Marx, in cui viene esposta l’antitesi tra concezione idealistica e materialistica della storia. D’altra parte, un sinonimo di corporeità è proprio “materialità”. Cosa ci dice Marx in questo scritto?

“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. […] Fin dall’inizio lo “spirito” porta con sé la maledizione di essere “infetto” dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio come la coscienza sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini.”

Insomma, Marx ci dice due cose sul linguaggio:

  •  Nasce dall’esigenza di comunicare con altri uomini;
  • E’ l’espressione “sotto forma di strati d’aria agitati” della materia.

Concentriamoci per un momento sulla seconda proposizione: “Il linguaggio è espressione della materia”. Questa affermazione muove da una logica controintuitiva per il senso comune odierno. Abituati, come siamo, a considerare il linguaggio o la scrittura come un qualcosa di per sé elevato, molto spesso sembra quasi che più l’esposizione risulti criptica più essa abbia un valore. Ci dimentichiamo così – e ritorniamo al primo punto – che il linguaggio nasce primariamente dall’esigenza di comunicare e di farsi quindi capire.

Concetto spaziale, Attese – Lucio Fontana, 1967

Spesso risulta infatti infinitamente più semplice sottoporre a critica un’affermazione piuttosto che produrne una migliore. E’ molto meno impegnativo scegliere di utilizzare mille parole forbite per circumnavigare un concetto, a debita distanza di sicurezza, invece che assumersi la responsabilità di penetrare questo alla sua radice. La radicalità, in effetti, ha proprio a che fare con ciò: il significato della parola “radicale” è preso in prestito dalla botanica e significa letteralmente “andare alla radice”. Oggi, sempre di più, siamo sommersi da analisi, critiche, punti di vista e commenti, ma nessuno di essi ci dice assolutamente nulla. Quando la parola smette di affermare e di farsi capire perde la sua potenza, scrivere diventa così un inutile esercizio meccanico.

Le strade da scegliere, a questo punto, sono essenzialmente due e determinano una precisa scelta di campo: la prima è fare coincidere mezzo e fine“l’arte per l’arte” potremmo dire, parafrasando gli esteti. La seconda è espressa al meglio nelle parole del poeta russo Vladimir Majakovskij:

“L’arte non è uno specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo.”

Questa frase trova conferma anche nell’arte: ne è un esempio l’opera di El Lissitzky “Spezza i Bianchi col cuneo rosso” che, proprio per il suo impatto comunicativo, fu utilizzata nel 1919 dalla propaganda sovietica.

Spezza i Bianchi col cuneo rosso – El Lissitzky, 1919

 

La potenza del linguaggio, nella sua semplicità, non ha nulla a che fare né con lo spiattellamento né con la banalizzazione dei concetti che si vogliono esprimere.

La forza delle parole, piuttosto, è insita nella ricerca di una dimensione autentica di ciò che si afferma.
Molti grandi della letteratura, d’altronde, lo avevano già capito in passato:

“A volte quando inizio una nuova storia e non riesco ad andare avanti, mi siedo di fronte al camino e inizio a schiacciare la buccia di alcune piccole arance verso gli angoli delle fiamme e osservo gli zampilli blu che si creano. Così finalmente scrivo una frase vera, e parto da là. Era facile perché c’era sempre una frase vera che conoscevo o che avevo sentito dire da qualcuno. Quando mi accorgevo che stavo scrivendo in maniera elaborata, o come qualcuno che introduce un tema o presenta qualcosa, mi fermavo e tagliavo la tiritera, buttavo via e ricominciavo dalla prima vera semplice frase dichiarativa che avevo scritto.

E. Hemingway

Il motivo di tutto questo è semplice: squarciare il velo di ipocrisia sotto il quale si barrica l’ideologia relativista post moderna. Quest’ideologia mutevole, difatti, respinge qualsiasi tipo di cambiamento radicale della società, legittimando così il torpore demoralizzante tipico del realismo capitalista. E’ neccessario trasporre, elaborare, forgiare dal magma del reale, quello della vita di tutti i giorni, nuovi ed antichi concetti. Rapportarsi alle idee non come fini ultimi della conoscenza, ma come grimaldelli da utilizzare per scassinare la realtà. Perché, in ultima istanza, comunicare vuol dire agire.

Mors
(artwork: Brindisi)