L’illusione della verità

Se la storia è maestra di vita, l’uomo non è un buon alunno.

Non intendo parlare di politica, di guerre, di fame e povertà, che esistono nel mondo fin dalle origini e continuano tutt’oggi a perpetrare in varie forme.
Piuttosto intendo dimostrare la vacuità di un sistema che molti considerano necessario, ma non è altro che una prigione per “accecati”, in cui un ammasso di schiavi segue leggi che vengono imposte come verità assolute: quello che i prigionieri non sanno è che queste verità, questi postulati creati e distrutti dall’uomo stesso, in realtà sono stati confutati già da tempo, senza che nessuno se ne rendesse conto.

Sto parlando della giustizia, della scienza, del lavoro, della famiglia, della religione, e via dicendo: tutti pilastri portanti della vita sociale di qualsiasi gruppo etnico sviluppato.
Non procederò nella mia dimostrazione andando a confutare una ad una tutte le leggi morali e sociali ritenute verità assolute, ma rifletterò sull’immensa precarietà di queste ultime, scavando in una storia che ci suggerisce palesemente di preferire l’illusione alla razionalità. Prassi d’altronde consolidata nella storia umana: ad esempio, durante gli eventi accorsi a cavallo tra il secolo della fertilità rinascimentale e quello della rivoluzione scientifica di Galilei, crocevia determinante ai fini della nostra riflessione.
Tuttavia, una premessa è dovuta.

A partire dagli anni danteschi, che corrispondono alla fine della civiltà medievale, l’uomo assunse una nuova consapevolezza della propria importanza e della propria potenza nel disegno universale: lo stesso uomo che fino all’anno 1000 si era aggrappato alla religione per scongiurare quella che tutti credevano fosse la fine del mondo, si riscoprì figlio di una nuova forza, che sposta il baricentro “dal cielo alla terra“.

L’ideologia verticale di ascensione divina, tipica dell’età di mezzo, venne rimpiazzata in pochi decenni da una struttura orizzontale, che pose l’esperienza umana al centro di tutto, in virtù di una rinnovata coscienza improntata all’autodeterminazione e alla capacità dell’uomo di essere artefice del proprio destino. Furono inoltre riscoperti i classici latini e greci, dai quali gli intellettuali ricavarono leggi fisse e verità assolute, accantonate dalla tradizione: queste verità ricominciarono a popolare le pagine dei libri, diffondendo conoscenze “belle, ma obsolete”. Un esempio su tutti era la teoria del sistema geocentrico di Aristotele e Tolomeo, i quali interpretarono la volta celeste come un insieme di corpi che ruotano attorno al pianeta TerraQuesta teoria costituiva la più forte tra le verità assolute di cui gli uomini disponevano nel sedicesimo secolo ed era la spinta determinante che condizionò il loro pensiero: siamo al centro di tutto, siamo il perno attorno al quale gira l’universo.
L’essere umano è la creatura più sviluppata di tutte e, in virtù di ciò, può imporre la propria legge ad animali, piante, e persino alle stelle (perlomeno quando le scoperte scientifiche lo permetteranno).

Nel frattempo, in Italia Galileo leggeva i saggi di un certo Mikołaj Kopernik (Niccolò Copernico), iniziando a guardare il cielo con occhi diversi.
All’inizio del Cinquecento, Copernico elaborò quelle osservazioni fisiche che costituirono la prima vera prova dell’esistenza del modello eliocentrico (in cui il sole è al centro di un sistema di cui fa parte anche il nostro pianeta). Lo studioso polacco era, tuttavia, intimorito dal potenziale delle sue stesse scoperte. La causa di questa sua preoccupazione era, ovviamente, la possibile reazione della Chiesa, da sempre accesa sostenitrice del geocentrismo, in quanto modello affine alle interpretazioni bibliche.
Il trattato copernicano “De revolutionibus orbium coelestium”, infatti, venne pubblicato nel 1543, contro la sua volontà e a pochi anni dalla sua morte. Uno stratagemma di un suo collega (inserito nella premessa del trattato) permise allo scritto di non avere problemi di censura (almeno fino al 1616) e, quindi, di essere letto da Galileo.

Il genio toscano, già all’inizio del diciassettesimo secolo, era convinto della validità delle tesi copernicane, ma, alla stessa maniera, non voleva rischiare di esporsi senza prove sufficienti.Nel frattempo, infatti, era giunta la notizia che Giordano Bruno era stato arso vivo in Campo de’Fiori, a Roma, per non aver abiurato le proprie “blasfemie” eliocentriche. In punto di morte, il filosofo napoletano disse:

“Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”.

Come dargli torto.

In quel momento la Chiesa stava decidendo di aggirare il problema piuttosto che risolverlo.
Fortunatamente, qualche anno dopo, entrò in gioco un’invenzione formidabile, che provvedette al resto. 
Venuto in possesso di questo strumento nuovo (ideato, probabilmente, in Olanda pochi anni prima), Galileo decise di perfezionarlo e di puntarlo verso il cielo: fu l’avvento del cannocchiale che, di lì a poco, avrebbe cambiato le concezioni dell’intera umanità.
Lo scienziato ebbe quindi la possibilità di verificare le proprie teorie in maniera concreta: infatti, appena dopo le prime osservazioni, Galilei fu in grado di rivelare all’umanità la grande bugia che la incatenava, dimostrando che quella grande verità assoluta (con tutto ciò che ne derivava) non era altro che falsità.

Galileo Galilei intento a “spiegare il mondo” ad un esponente clericale.

La risposta della Chiesa fu affidata ad un introito gregoriano, rispolverato per l’occasione, che recitava:

“Viri Galilaei, quid statis aspicientes in coelum?” (“Uomini di Galilea, di cosa vi meravigliate guardando il cielo?”).

Dopo l’ovvio riferimento al cognome dello scienziato, emergeva la volontà della religione di oscurare parti di conoscenza che le risultano sconvenienti; o meglio, dalla lettura significante della domanda posta retoricamente a Galileo, capiamo che la Chiesa gli “suggerì” di evitare di perdere tempo a guardare il cielo, in quanto la verità è già scritta nei testi e non cambierà. Fortunatamente, lo scienziato non si lasciò intimorire dalla minaccia clericale.
Ciò gli costò vari processi, che culminarono nella sua incarcerazione a causa del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”: l’opera che, negli anni successivi alla sua morte, riuscirà finalmente a convincere l’umanità delle sue teorie.

Galileo ci ha messo al corrente del fatto che l’essere umano è una parte minuscola di un tutto infinito e che i nostri gesti terreni non contano nulla in una logica universale e cosmica.
La relatività della realtà ci è stata rovesciata in faccia come una torta, ma sembra che le persone continuino ad attaccarsi a verità che ritengono assolute ed inconfutabili: probabilmente si sentono al sicuro, protette da un alone di ignoranza, che permette loro di guardare la vita senza afferrarla mai.

Tuttavia, dopo quattrocento anni dai fatti storici precedentemente citati (e oggi più che mai), l’uomo vive ancora in nome di valori e regole generate da un sistema che fa del concetto di verità assoluta il proprio postulato di base: a partire dall’infanzia ci insegnano i dogmi della religione e gli obblighi verso la famiglia; poi, con l’avanzare dell’età, ci educano al lavoro, alla carriera, ai soldi, ai beni materiali.
Tutti aspetti importanti, ritenuti cardini della vita umana, quasi imprescindibili, ma che, in fondo, sono solamente illusioni.

Nella pratica, essi rappresentano “ciò che tiene le persone impegnate”, generando una serie di preoccupazioni ed ansie che indirizzano la vita verso il baratro: imposizioni di un sistema che continua a professare la sua indispensabilità per il bene comune, ma che assicura all’uomo un futuro di corruzione e rabbia, in cui la vita è scritta da qualcun altro e non c’è spazio per voci discordanti nel coro.

Tuttavia, come suggerito da Galileo (e tanti altri dopo di lui), l’uomo non è al centro di nessun progetto universale, bensì solo una minuscola parte di un infinito, troppo grande per essere decifrato.

Non posso credere che una creatura così misera abbia la possibilità di scegliere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, e la pessima situazione di odio e pregiudizi in cui vive la società odierna non è altro che una prova della sua fallacia. Mi domando, quindi, se la soluzione possa essere quella di vivere unicamente del proprio pensiero, in una logica, tuttavia, non individuale, ma collettiva. Una logica di condivisione, piuttosto che secondo verità assolute, propinate da “capi” che non hanno maggiore dignità di un qualsiasi altro comune mortale.

D’altronde, chissà tra mille anni quale altra grande certezza verrà ribaltata. Chissà se l’uomo continuerà ad esservi indifferente.

Se la storia è maestra di vita, l’uomo dovrebbe starla a sentire.

Solipsia è questo, un’isola indipendente libera da dogmi e assolutezze, immersa nel mare della propria ispirazione, libera da qualsiasi tipo di oggettività, perché consapevole di come la verità si realizzi unicamente nel pensiero soggettivo di ognuno.

T.Supertramp
(artwork: LaCirasa)