L’Albatro n.7: “Iran PS752”

Il vento proveniente dal Damavand, il vulcano dormiente, spira placido per le vie strette e affollate di Teheran. Il cielo è terso, azzurro profondo. L’Iran è un paese virtuoso, con una tradizione culturale millenaria: ci troviamo nell’antica Persia, terra popolata sin dall’alba dei tempi, chiamata così in onore di Perseo, colui che uccise la gorgone Medusa, per poi prendere in sposa Andromeda, liberata dalle strette catene imposte da Poseidone. Mitologia a parte, ci troviamo in un territorio che, nelle ultime settimane, si trova al centro delle cronache mondiali per via della rapida escalation militare intercorsa con gli USA, che rischia di coinvolgere l’intero scacchiere geopolitico (e militare) mondiale.

Le relazioni tra i due stati, d’altronde, sono tese dal 1979, anno della Rivoluzione Khomenista in Iran. Sempre nel ’79, inoltre, per un misto di volontà di legittimazione internazionale e anti-americanismo, le milizie rivoluzionarie iraniane rapirono 52 dipendenti dell’ambasciata americana, causando la prima crisi effettiva tra i due paesi. Durante gli anni ’80, gli Stati Uniti non fecero mancare la propria presenza durante il conflitto tra Iraq e Iran; nel decennio successivo, di contro, il paese iraniano manifestò i propri interessi strategici durante la guerra del Golfo. Le ostilità permangono negli anni, tra minacce nucleari e diffidenza reciproca. Inoltre, è da sottolineare un aspetto critico alla base delle divergenze fra i due paesi: l’Iran costituisce la prima potenza sciita del mondo musulmano, per definizione in conflitto con la principale potenza sunnita, l’Arabia Saudita, un alleato di ferro degli USA. 

Rinfrescate le premesse storiche, non ci resta quindi che analizzare gli eventi attuali.

Donald Trump annuncia l’attacco iraniano alle basi americane, 8 Gennaio 2020


10 Settembre 2019: Donald Trump annuncia al mondo il licenziamento in tronco di John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale. Questo segnale viene interpretato come un tentativo di distensione nei confronti del paese iraniano, poiché Bolton è noto per le sue posizioni interventiste per quanto riguarda il conflitto tra Stati Uniti e Iran: è proprio l’ex consigliere di Trump, infatti, ad aver ratificato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare l’8 Maggio 2018, favorendo, di fatto, la gravissima recessione economica del paese iraniano e l’inasprimento delle relazioni tra i due stati. Il ritiro dall’accordo, nella pratica, ha causato la reintroduzione delle sanzioni americane ai danni dell’Iran, gettando il paese mediorientale in una crisi senza precedenti.

In realtà, ad innalzare il livello di tensione, qualche mese prima dell’allontanamento di Bolton, (esattamente il 20 Giugno 2019), ci avevano pensato le forze militari iraniane, abbattendo un drone statunitense sullo stretto di Hormuz: l’Iran, in quell’occasione, accusò l’aviazione americana di aver violato lo spazio aereo del paese, rigettando ogni responsabilità per l’incidente bellico. Questo episodio sarebbe potuto essere il casus belli per un’ipotetica risposta statunitense, ma l’amministrazione di Trump ha preferito attendere.

3 Gennaio 2020, Baghdad: a pochi metri dall’aeroporto della capitale irachena, un drone americano colpisce un convoglio di automobili: è il convoglio della delegazione iraniana in cui viaggiava Qasem Soleimani, atterrato poco prima a Baghdad per gestire le relazioni con le milizie alleate in Iraq. Il bombardamento va a segno e non risparmia nessuno, provocando la morte istantanea di tutti i delegati.
Soleimani era un generale iraniano a capo della Niru-ye Qods, termine persiano traducibile come “Brigata santa”: più noti con l’appellativo di Guardie della Rivoluzione, i membri di questa brigata costituiscono di fatto un’unità militare portabandiera dell’ideologia khomenista, fondata da Ruhollah Khomeni, Grande ayatollah e Guida Suprema dell’Iran dal 1979 al 1989.
Il “Comandante ombra”, come veniva chiamato dai suoi avversari, era nella lista dei nemici statunitensi da tempo, ritenuto responsabile della morte di almeno 600 militari americani tra il 2003 e il 2011.
Donald Trump ha ordinato e presieduto l’intera operazione, effettuando una mossa ritenuta da alcuni strategica, da altri sconsiderata, ma – soprattutto – totalmente inaspettata sul fronte iraniano: una morte decretata a tavolino, senza nessun tipo di processo, coordinata in solitaria dal Commander in chief degli Stati Uniti.

Inizia così, a sorpresa, una nuova fase dell’interventismo bellico americano in Medio Oriente.

Qasem Soleimani

La brezza placida che spirava per le strade di Teheran si è trasformata in un vento di violenza e guerra. La risposta dell’esercito iraniano, infatti, non si è fatta attendere. L’8 Gennaio l’Iran annuncia l’inizio dell’operazione “Soleimani Martire”, un violento attacco missilistico ai danni delle due basi irachene che ospitano le truppe statunitensi, Al Asad ed Ermin. E’ la prima operazione di risposta all’uccisione di Qasem Soleimani. Teheran, nel rivendicare l’attacco, dichiara almeno 80 vittime. Il bilancio, tuttavia, viene smentito dallo stesso Trump tramite un tweet, che esclude vittime fra i soldati americani. Il raid, infatti, era stato annunciato con qualche ora di preavviso dal governo iracheno, permettendo ai militari di nascondersi e ripararsi preventivamente nei bunker.

La risposta di Donald Trump su Twitter:

Nella conferenza stampa che ne segue, Trump annuncia dalla casa bianca l’imposizione di ulteriori sanzioni ai danni dell’Iran, ribadendo che «tutte le opzioni restano sul tavolo». Nel frattempo, il presidente iraniano Assan Rohani dichiara che «Non è finita, taglieremo le gambe all’America, vogliamo gli USA fuori dal Medio Oriente». L’incursione missilistica dell’8 Gennaio sembra infatti essere più un avvertimento che un vero e proprio attacco: come già accennato, l’operazione è stata annunciata, seppur indirettamente, con due ore di anticipo dallo stesso governo Rohani, informando Baghdad e, di riflesso, gli stessi Stati Uniti.

Proseguendo nella narrazione, accade rapidamente qualcosa di inaudito. Sempre 8 Gennaio, qualche ora dopo i raid missilistici: il Boeing 737-800 della Ukraine International Airlines, partito da pochi minuti dall’aeroporto di Teheran, precipita inesorabilmente, schiantandosi al suolo. A bordo ci sono 176 passeggeri provenienti da diversi angoli del mondo, tra cui anche 81 iraniani: nessuno sopravvive. Sin da subito le fonti occidentali parlano di un errore balistico dell’esercito iraniano, ma i portavoce di Rohani negano l’accaduto sostenendo una tesi differente, attribuendo ad un guasto tecnico ai motori la causa dell’incidente.

In questo video possiamo vedere l’aereo in fiamme che precipita al suolo ed il suo successivo impatto.

 

Diverse agenzie investigative indipendenti (come Bellingcat) iniziano ad esaminare l’accaduto: le indagini vertono tutte verso la stessa direzione, evidenziando facilmente la presenza di un missile iraniano, partito per errore, che avrebbe impattato il velivolo causando la morte dei 176 passeggeri di quel volo maledetto.

Dopo circa tre giorni dall’accaduto, l’11 Gennaio 2020 (proprio mentre mi appresto a scrivere quest’articolo), il presidente Hassan Rouhani ammette, con questo tweet, la colpevolezza nell’incidente aereo:

Rohani sottolinea la natura involontaria dell’incidente, causato dall’errore “umano”, definito “imperdonabile”, dei militari che hanno scambiato il velivolo civile per una minaccia, affermando che «Sono state prese misure legali contro chi ha commesso questo errore». L’ammissione di responsabilità è stata comunicata pubblicamente dal generale Amir Ali Hajizadeh, comandante delle Forze aeree dei Guardiani della Rivoluzione, che in un’intervista andata in onda sulla tv di stato iraniana ha sostenuto: «Mi assumo la piena responsabilità e rispetterò qualsiasi decisione sarà presa. Ho desiderato morire quando sono stato informato che l’aereo è stato abbattuto per errore dai miei uomini.»

Dalla negazione totale all’ammissione di colpa, tutto nel giro di 48 ore. Questo episodio ci mostra il vero volto della guerra: il 90% delle vittime nei conflitti sparsi in tutto il mondo sono civili, persone comuni, come te che stai leggendo questo articolo, come me che lo sto scrivendo. Studenti, lavoratori, bambini, genitori, nonni. Persone. La guerra è, ancora oggi, lo strumento prediletto dai potenti del mondo per “risolvere” le criticità, anche perché alla base vi sono sempre interessi economici. Quello che salta agli occhi è l’apparente inevitabilità del conflitto, come se fosse un percorso obbligato nella vita politica delle potenze mondiali.
Noi, d’altro canto, condividiamo le parole di Gino Strada:

“Se la guerra non viene buttata fuori dalla storia dagli uomini, sarà la guerra a buttare fuori gli uomini dalla storia.”

Buon 2020? Più o meno.

Mister O
(Ph: Pio)