La piaga dell’uomo

IL COSTO DEL PROGRESSO

Tra tutte le creature che popolano questo pianeta, la più meschina è l’essere umano.
Non tu, lettore, né io, si intenda. Eppure, se pensassimo alla società come lo specchio dell’uomo, che figura raccapricciante vedremmo proiettata nel vetro! Allora com’è possibile? Anche io dovrei ritenermi animato da intenti meschini nello scrivere queste parole e tu, lettore, chissà quali cattiverie starai covando nel leggerle. 
E invece no, almeno in principio. Nasciamo buoni, animi nobili e gentili, così come tutti da bambini. Poi si cresce, si cambia e ci si corrode. Non si recupera mai quella dimensione di fanciullezza, legata in qualche modo agli albori della vita dell’uomo, quando tutto era puro e bello. Eravamo liberi e felici ed abbiamo deciso che tutto ciò non era corretto. Abbiamo quindi costruito un grande castello di carta con le nostre stesso mani e ne abbiamo fatto la nostra prigione. Tutto è diventato gerarchico, ordinato e schematico, in modo tale che ognuno sia “protetto”.

Ma protetto da cosa? Non mi sento protetto dalla meschinità dell’uomo, dalle decisioni dei potenti, dal conformismo etico e morale di una popolazione (specialmente occidentale) che non cambia, che non si ribella più, perché ipnotizzata dai media.
L’evoluzione ha portato grandi privilegi nelle mani dell’ex scimmia, ma a quale costo? Denaro, ovviamente. L’uomo ha barattato la propria libertà e la propria felicità con dei soldi, ritenendo questi soldi più importanti della vita stessa e mascherando queste privazioni sotto il nome di “progresso”. Ecco perché i cattivi non siamo io e te, lettore, ma anche noi facciamo parte di questa meschinità.
La società, d’altronde, non è lo specchio dell’uomo, ma lo specchio della sua evoluzione. Un’evoluzione che ha distrutto quasi completamente il suo habitat, ha creato disparità, conflitti, preoccupazioni, morti. La superbia, quella stima smisurata verso se stessi, costruita su illusioni flebili, ha portato alcuni uomini a ritenersi degni di maggiore privilegio rispetto ad altri. Tutti, indistintamente, vivono sulla propria pelle quella sensazione, subendola e causandola in egual misura, in un ciclo perpetuo di auto-sottomissione. Per lo stesso processo, la razza umana ha rotto l’equilibrio biologico terrestre, elevandosi sopra tutte le altre razze che coabitano il pianeta, nel nome assoluto della ragione. Ma è davvero ragionevole tutto ciò?

Dopo essere stato corroso dall’evoluzione, l’uomo è diventato una piaga, sia per il pianeta sia per gli altri animali che lo abitano. Non c’è un metro quadro di terra in cui egli abbia messo le mani che non sia stato danneggiato irreparabilmente. L’intero ecosistema sta collassando ed è colpa esclusiva di una delle specie animali che lo popola, quella considerata la più intelligente. Attraverso questa pretesa, l’essere umano si arroga il diritto di decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, sia per se stesso che per gli altri. E’ giusto quindi produrre plastica perché comoda ed economica, a prescindere dal fatto che inquini la risorsa più importante del pianeta, l’acqua, e uccida migliaia di animali che lo abitano. E’ quindi giusto continuare a costruire industrie e fabbriche, purché producano quanto più materiale possibile nel minor tempo: poco importa se i gas di scarico stanno velocizzando l’invecchiamento dell’ecosistema di migliaia di anni.
Se apocalisse fosse, in sostanza, non ce ne accorgeremmo. Che taccia quel manipolo di scienziati che, da anni ormai, si sbraccia in ogni modo per farcelo capire. Continuiamo in questa pretesa di superiorità, continuiamo a sentirci migliori degli altri, in particolare degli altri animali.

Non mi dimentico di te, lettore. So che tu se più sensibile degli altri, so che anche tu senti tutto questo, lo so perché ho visto con i miei occhi che questo senso di disagio non appartiene solo a me. Me ne sono reso conto quando sono entrato per la prima volta in un’arena per la corrida, a Malaga. Ho visto persone abbandonare il proprio posto a sedere perché non reggevano tutta quella sofferenza. Il torero che prende il volo come un supereroe e conficca la spada affilata nella carne dura del toro sedato, che in qualche modo prova a reagire, inutilmente. Poi la seconda spada, la terza. Una serie di altri colpi che fanno schizzare il sangue del povero animale dappertutto e lo fanno cadere al suolo, ancora agonizzante. Mi scende una lacrima prima del colpo finale, quello che uccide il toro. Gran parte del pubblico è in visibilio, una minoranza abbandona l’arena disgustata.
Il torero festeggia costeggiando il campo sabbioso, esultante, raccogliendo i fiori e le coccarde che piovono dalle prime file, mentre qualcuno si occupa di spostare l’animale morto, trascinante una lunga scia di sangue: dopo meno di cinque minuti, d’altronde, la sabbia ha già coperto tutto ed un nuovo animale è pronto per essere umiliato.

Ad alcuni piace questo evento: dicono sia solo un gioco, una tradizione secolare. Per me è quanto di più meschino un uomo possa fare ad un animale: non è avvincente, è semplicemente squallido. Il toro è visibilmente sedato, stanco, incapace di reagire mentre il torero lo “mata”. Una celebrazione di sofferenza e agonia, che dimostra quanto l’essere umano non sia superiore agli animali, ma semplicemente più meschino. Persino in natura, dove la lotta per la sopravvivenza decide la vita o la morte, non esistono queste atrocità, non esiste un essere che uccide per divertimento: nessuno, escluso l’essere umano. Non c’è bisogno di essere animalisti o ecologisti o quant’altro (anche se non fa male), si tratta di fermarsi a pensare. Il mondo in cui viviamo, la società con la quale interagiamo ogni giorno, tutto quel mucchio di stronzate con cui vengono farcite le nostre menti fino a saturarle, è tutto palesemente sbagliato. Eppure, caro lettore, non riusciamo a ribellarci, perché hanno portato il paradosso all’ordine del giorno, finchè il paradosso è diventato normalità. Che male c’è ad andare allo zoo? Si, allo zoo. Un luogo apparentemente così conviviale: pieno di bambini, giochi, dolci e divertimenti. D’altronde, che bello è vedere gli animali chiusi nelle loro gabbie, che girano in tondo nervosamente perché non hanno spazio. Privati del loro habitat naturale e del loro istinto selvaggio, resi oggetti da esposizione, figure inerti con cui farsi un “selfie”.

L’ultima volta che ho visitato uno zoo ero a Tenerife: mi resi conto sin da subito che non era divertente, per niente. La leonessa era in una posizione strana, innaturale, rovesciata con la schiena sulla terra, spiaccicata contro il vetro che la separava dal pubblico. Uno dei due occhi era ben visibile ed era bellissimo, con delle sfumature gialle che facevano pendant con il pelo dorato. Ma dietro quella bellezza si celava un’oppressione visibile, più sincera di mille parole. Un po’ come quando qualcosa di indelebile accade nella vita di un uomo: qualcosa di brutto, che modifica il suo sguardo irrimediabilmente, come se ogni volta i suoi occhi fossero chiamati a testimoniare la sofferenza per quell’evento passato.
Questo è ciò che mi parve di vedere in quell’occhio. Così bello da fotografare, ma così triste da suscitare in me un’avversione verso quelle gabbie, verso quelle riproduzioni artificiali (abbozzate male) degli habitat naturali, verso quegli spettacoli orribili. Ricordo uno scimpanzé, anch’egli chiuso dietro uno di quei vetri, completamente solo ed inerte, con lo sguardo fisso verso gli esseri umani, i suoi spettatori.
Gli stessi che si definiscono la sua versione più evoluta, il 2.0. Gli stessi che lo hanno privato della sua giungla nativa, per trascinarlo (suo malgrado) nel mondo del “progresso”.

Tutto ciò mi riporta alla mente un episodio di una serie tv di fine anni ’50, The Twilight Zone: i protagonisti, due astronauti chiamati Marcuson e Conrad, vengono mandati su Marte per fare amicizia con la nuova civiltà. Il primo tuttavia non sopravvive all’atterraggio, lasciando Conrad solo.
Quest’ultimo esce quindi dall’astronave in cerca di riparo e viene accolto dai marziani, che sembrano del tutto uguali alle persone terrestri, per modi ed aspetto. Essi lo invitano in un comodo appartamento, riprodotto seguendo fedelmente gli standard terrestri, dove l’uomo può riposare per qualche momento. Alla temporanea calma sussegue tuttavia il geniale switching ending finale, che svela l’inganno: Conrad strappa la tenda e si ritrova davanti ad un pubblico di marziani intenti ad osservarlo e fotografarlo, oltre che ad un’etichetta descrittiva che recita “Creatura terrestre nel suo habitat moderno”. Ritornano quindi alla sua mente le ultime parole del compagno Marcuson che, prima di morire, lo aveva esortato a non aver paura, ricordandogli che “le persone sono uguali dappertutto nell’universo”. Da qui il titolo originale dell’episodio, “People Are Alike All Over“. (Gente Come Noi nella versione italiana. La serie, infatti, andava in onda in Italia con il titolo “Ai confini della realtà”).

Una scena tratta dall’episodio

Marcuson aveva effettivamente ragione: le persone sono uguali dappertutto, ma lo sono in virtù delle loro efferatezze. E così anche l’essere umano, trascinato nel mondo del “progresso”, può diventare vittima delle proprie cattiverie, così come è accaduto a quello scimpanzé che, qualche migliaio di secoli fa, giocava sereno nella sua giungla natia. Quello scimpanzé che ha raddrizzato la schiena e reso il suo passo equilibrato. Lo stesso che ha nel tempo migliorato le sue conoscenze tecniche, che ha imparato a sfruttare e trasformare le risorse della terra per farne strumento. Lo stesso che ha costruito case da abitare, dimenticando gli alberi ed i ripari naturali. Quello scimpanzè che ha raggruppato e diviso quelle case in tanti nuclei chiamati città, che si è messo a capo delle città e dei suoi abitanti. Lo stesso che ha creato il commercio ed il denaro, per poter suddividere, razionare e distribuire le risorse fra quegli stessi abitanti, quelle stesse risorse che avevano sempre avuto a libera disposizione. Lo stesso che ha creato quella stessa società che, svariate epoche dopo, milioni di anni dopo, ha finito per intrappolarlo.
Il “progresso” ha creato degli animali sociali bramosi di potere, di fama, ma soprattutto di denaro, l’unico dio in terra conosciuto e realmente esistito: l’ossessione ricorrente dei tempi nostri, che spegne le coscienze e gli istinti e disegna la realtà secondo le decisioni di pochi.

Sai che c’è, lettore? Nessuno ci capirà. Meglio, nessuno avrà voglia di farlo.
Rimarremo incompresi, soli ed ignorati, perché nella realtà contemporanea nessun principio, nessun valore è abbastanza importante in confronto al denaro. La sofferenza, specialmente di un animale, non sarà mai considerata allo stesso livello del benessere di un umano, o sbaglio? Queste stesse mie parole saranno nulla in confronto al pensiero comune.
Ci penso ogni volta che assisto a scene semplici, comuni, come un padre che porta il figlio al circo. Poco importa se prima dello spettacolo quegli animali siano stati torturati, denutriti e trasportati in condizioni di degrado: quel padre si sentirà tutelato dal fatto di pagare un biglietto e lo farà con la coscienza pulita, dal momento che il circo degli animali non è solo una realtà socialmente accettata, ma anche permessa e regolata dalla legge, la legge degli uomini. Tanti saluti quindi ai poveri e maleodoranti animali, perché la cosa importante è il proprio divertimento, il proprio benessere e svago, appunto. Un postulato molto semplice, che sta portando l’essere umano a distruggere l’intero ecosistema, compreso se stesso. (Ci sarebbe poi un’intera ed ulteriore analisi da affrontare su come si possa provare divertimento e benessere nell’osservare tali atti di sottomissione. Mi limiterò a sottolineare come spesso venga improntato nei bambini un immaginario felice del circo con gli animali, tralasciando ogni aspetto etico e di sofferenza e di fatto legittimando, normalizzando ed esaltandone l’idea, specialmente in primissima età.)

Questa è, dunque, la realtà nella quale viviamo, caro lettore, ed è tutto troppo radicato nelle menti di ognuno per far sì che uno qualunque, tipo me, o te, possa suonare la sveglia. Tuttavia, arriverà il giorno della resa dei conti, un giorno terribile in cui tutto intorno sarà asfalto e l’essere umano soffocherà nella sua superbia. Quel giorno, finalmente, l’uomo capirà che la sconfinata brama di potere che lo caratterizza era una semplice illusione. Un po’ come quell’episodio di The Twilight Zone.

T. Supertramp
(ph: T. Supertramp)