Il fantasma dello Stato-Nazione

«Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.»

Fabrizio De Andrè – “Nella mia ora di libertà”

L’essere umano, fin dai suoi albori, ha basato e sviluppato il suo pensiero sul concetto di libertà e sul suo più intrinseco significato. La stessa parola libertà è stata ed è tutt’ora oggetto di infiniti discorsi: riconosciuta come valore, etichettata come brutale minaccia e/o strumentalizzata nelle logiche di potere.
La politica occidentale, in primis, ha costruito attorno ad essa una propria dottrina. La libertà, così come il libero arbitrio di ogni individuo, è stata messa in gioco sui tavoli dell’uguaglianza e posta in termini giuridici nella figura dei diritti.
Libertà definita come antitesi della schiavitù, in opposizione all’oppressione e dominio.

Ma da cosa o chi ci sentiamo liberi? Siamo uomini liberi?

È importante riflettere sulla relazione tra idea e realtà della libertà, cioè il concetto e la sua forza oggettiva. L’idea in sé (la sopracitata dottrina dell’antitesi alla schiavitù) ha avuto ed ha influenza sulla formazione delle istituzioni politiche moderne e contemporanee, che a loro volta la dogmatizzano nella realtà, spesso distorcendola.
Ricercandone l’etimologia, seguendo il vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Émile Benveniste, due sono le radici all’origine della parola libertà:
“Lueth” (o “Leudh”), di radice indoeuropea, da cui deriva il termine latino/romano “Libertas”;
“Frya”, di radice sanscrita, da cui deriva il termine inglese “Freedom”. 
Questa doppia articolazione semantica deriva, a sua volta, da due distinte accezioni: una riferita all’amicizia (dalla radice Frya) e l’altra riferita ad un processo di crescita (dalla radice Leudh). Entrambe riguardano alcuni dei sentimenti primari degli esseri umani e delle sue relazioni sociali.

La libertà è azione, movimento interiore ed esteriore.

Tuttavia, fin dai Greci, questo concetto è stato affiancato ad un corpo collettivo, definito in un determinato territorio. La polis greca si proclamava libera, in quanto autonoma e abitata da cittadini uguali, che discutevano assieme della cosa pubblica. Proprio a partire da quest’epoca, infatti, la libertà inizia ad essere accostata alla politica, diventando un valore “per pochi eletti”, da difendere anche a costo di intraprendere guerre contro altri imperi, considerati “non liberi” in quanto stranieri e, come tali, “minacciosi” per la stessa “libertà ellenica”.
La schiavitù contro cui si lotta, però, non è sociale, ma politica. La libertà si identifica in un determinato status del cittadino e, non a caso, gli schiavi e gli stranieri vengono esclusi dalla partecipazione politica perché “non liberi”“barbari”.

La storia dell’umanità tutta è caratterizzata da secoli sanguigni e “guerre per la libertà”.

Il singolo, dovendo seguire determinati ruoli per difendere la “patria” , deve essere un “buon cittadino” e, quindi, baratta la propria libertà individuale in favore di una presunta libertà collettiva. Queste identità collettive, sviluppate singolarmente nei diversi territori, tuttavia, entravano spesso in collisione tra loro: ne è un esempio la crisi dell’Impero romano, causata dalle forti pressioni esterne scaturite dallo scontro con culture differenti.

«La libertà non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto.»

Cicerone – “De republica”

Rappresentazione di una battaglia tra romani e “barbari” (Goti) sul Sarcofago Grande Ludovisi – III secolo

Più di mille anni dopo, la scissione della dottrina luterana dal dominio morale e politico della Chiesa Cattolica, avvenuta nel XVI secolo, permetterà la nascita di una nuova consapevolezza, una nuova declinazione e conseguente nuova dottrina della libertà. Quest’ultima, espressa da Lutero, a differenza del cattolicesimo metteva in evidenza la capacità dell’individuo di agire: attraverso le “opere buone” compiute sulla Terra, l’uomo raggiunge la “vita eterna”.
In Occidente inizia a sorgere il rifiuto nei confronti del monopolio di Roma sulle coscienze e sulla politica. Lutero si discosta dalla figura del Papa come pontefice, rompendo il rapporto tra Dio e la Chiesa Cattolica. Il soggetto ricopre un ruolo decisivo, che in questo caso si identifica con un’identità infinita che agisce nel mondo terreno, privo di un senso.
Questa nuova filosofia, tuttavia, comportò altre guerre civili di religione.

La lotta tra identità collettive cessa solo nel momento in cui esse si allontanano dalla sfera religiosa.

Le idee espresse all’interno del “Leviatano”, ideate da Hobbes nel 1651 e messe in pratica in Europa proprio in quegli anni, posero fine alle guerre religiose, erigendo un soggetto non più legato a Dio, ma capace di un potere universale e politico, conquistato attraverso la costruzione di uno Stato.

La copertina originale della prima stampa del libro “Leviatano o la Materia, la Forma e il Potere di uno Stato Ecclesiastico e Civile” di Thomas Hobbes – 1651

Come nelle polis greche, gli Stati occidentali nascono sull’idea della realizzazione della libertà attraverso un corpo collettivo. La classe media, coinvolgendo l’intera popolazione, distrugge l’ancien régime, estendendo così il potere ad un nuovo gruppo chiamato borghesia. Gli “illuminati”, che si uniscono come movimento culturale, sociale e politico intorno al XVIII secolo in Europa, liberano la plebe dalle vecchie catene imponendo su di essa, però, nuove logiche di sottomissione.
Lo stato che affiora in quest’epoca è superiore ad ogni altro soggetto, esercita il suo potere entro i confini stabiliti e detiene il monopolio dell’utilizzo della forza. Questa sovranità è adoperata sui cittadini, regolati da un ordine politico e giuridico stabilito.
La libertà moderna, incorporata nelle nuove istituzioni, sostituisce il dominio creato dal sistema feudale e dalla Chiesa. Appaiono nuove organizzazioni con nuove figure di leadership, non più collegate ad un legittimità tradizionale, ma ad una legale e carismatica. Resta la persistente presenza di un gruppo oligarchico che gestisce le libertà individuali, in cambio di diritti e doveri “per il bene della nazione”. Tutti gli individui, di conseguenza, in quanto cittadini di una nazione, sono definiti uguali ed hanno le stesse razioni di libero arbitrio.

Il concetto di “eguaglianza” che emerge nei contesti territoriali si affianca, tuttavia, alla distinzione fra gli stessi, intesa come possibilità e necessità di differenziarsi dagli altri, esclusi dalla propria nazione, tramite le continue dimostrazioni della propria peculiare identità.
Prova di queste due caratteristiche sancite dalla nuova politica è la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, redatta da Thomas Jefferson: un documento politico che scardina il legame tra monarca e sudditi, rivendicando il potere dei governanti.
Riprendendo dal testo originale:

«Noi riteniamo che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità.»

Dal “noi americano”, tuttavia, erano esclusi gli inglesi, gli indiani e le donne: tutte quelle categorie di persone per definizione non libere, poiché non appartenenti alla stessa ideologia e cultura. Lo Stato, nel mentre, rafforzato dal popolo, combatte altri popoli guidati da altri Stati. La Grande Guerra, e successivamente la II Guerra Mondiale, testimoniano l’atrocità che si manifesta in nome della difesa dei confini e/o dell’etnia di appartenenza.

Il documento che sancì la dichiarazione di indipendenza americana, 1776

I poteri centralizzati e la divisione dei ruoli all’interno dei sistemi sociali hanno permesso, fino ad adesso, di perseverare i confini stabiliti in quei secoli. Tutt’ora, tuttavia, nel mondo si perpetuano guerre tra identità nazionali, contraddistinte da differenti connotati culturali.

Nonostante il globo sia interconnesso tramite i nuovi media, che ricalcolano e reimpostano continuamente la velocità delle informazioni con cui entriamo in contatto ogni giorno, si mantengono delle pratiche di pensiero e di uso inerenti a culture apparentemente connesse, ma comunque separate.

Il fenomeno di unificazione dei mercati su scala mondiale (avvenuto tramite la liberalizzazione e la crescita degli scambi commerciali e finanziari internazionali), unito alla diffusione delle innovazioni tecnologiche ed all’evoluzione del Web, ha stimolato e accelerato il processo di globalizzazione, da sempre parte integrante della storia dell’essere umano, già a partire dalle preistoriche migrazioni nomadi.
Ciò nonostante, il concetto di “villaggio globale” (definito da McLuhan per identificare la società contemporanea) si scontra con le decisioni politiche ed economiche dominanti, che prevalgono sui flussi comunicativi, di risorse e di persone: nonostante sia impossibile non osservare come tutti gli stati, da un lato, concorrano verso un mercato transnazionale, tramite accordi e nuove organizzazioni internazionali (come ad esempio la NATO, l’Unione Europea o L’ONU), è altresì azzardato non considerare quanto queste decisioni e relazioni siano fragili, poiché spesso influenzate e contrapposte alle azioni ed agli interessi interni degli Stati-Nazione stessi.

E’ facile constatare quanto i “diritti” (intesi come concessioni) ed i “doveri” (intesi come obblighi) del singolo individuo, di conseguenza, rimangano, nella realtà dei fatti, intriseci alle scelte della Nazione di appartenenza, che sia essa soggetta o meno ad accordi internazionali.

La Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani, adottata dall’Assemblea Generale Delle Nazioni Unite nel 1948, è un documento che testimonia uno dei primi storici tentativi degli Stati di affrontare la tematica dei diritti “universali e inalienabili” per tutti gli esseri umani.
Il preambolo del testo, d’altronde, dichiara:

«Il disconoscimento ed il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità».

Essa, quindi, considera “necessari” i diritti umani purché:

«Siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione».

Eleanor Roosevelt – ex first lady degli Stati Uniti e all’epoca delegato Usa all’Assemblea generale delle Nazioni Unite – mostra un manifesto in inglese della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – New York, novembre 1949

Purtroppo, però, la realtà contemporanea continua a discostarsi da queste nobili dichiarazioni: ne sono esempi le continue guerre in Medio Oriente, l’attacco dell’11 settembre (qualsiasi sia la versione a cui crediate), così come la nuova ideologia “sovranista” legata ad un complotto contemporaneo, quello del “piano Kalergi”.

Come nasce il mito del fantomatico “Piano Kalergi”?

Questa teoria fu elaborata da Gerd Honsik (noto negazionista austriaco), nel suo libro “Addio Europa”. Egli ipotizzava la formazione, nel continente europeo, di un insieme di Stati confederati mantenitori della propria sovranità. Questo progetto, caratterizzato da un territorio sovranazionale e unito, secondo il complotto Kalergi, sarebbe stato necessario allo scopo di fronteggiare una (fantomatica) invasione e successiva imposizione etnica di sostituzione dei popoli europei, in favore di quelli asiatico-africani.
La migrazione viene, quindi, ovviamente etichettata come pericolo e preambolo d’invasione da parte del diverso. Purtroppo, questa teoria, ancora oggi, attecchisce facilmente nelle masse attraverso la propaganda politica e le ideologie conservatrici che rivestono il mondo.

Si ritorna, ancora una volta, alla difesa dei cosiddetti “confini”.

Fin dalle prime popolazioni, nomadi o sedentarie, il termine “confine” ha assunto un ruolo “giuridico” ed un valore a sé stante: proprio attraverso i confini (inizialmente dettati dalla natura), infatti, l’uomo ha da sempre definito territori e spazi geografici all’interno dei quali vivere, stanziarsi o generalmente approvvigionarsi sfruttando le risorse presenti, necessarie alla sopravvivenza della propria comunità (e, di conseguenza, da difendere).
Col passare dei secoli, i vari confini hanno assunto in maniera sempre crescente i connotati di “frontiera”. In seguito al trionfo dello Stato-Nazione in epoca moderna, queste varie divisioni si identificano con la sovranità degli Stati stessi.
Il confine diviene affermazione del proprio sé, incorporato in un’identità nazionale. Questo segmento di terra, che separa o unisce, è oggetto di difesa militare e diventa una barriera per i flussi migratori umani.

Paese che vai, muro che trovi.

Veniamo ad oggi: l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha recentemente dichiarato uno “stato di emergenza nazionale” , al fine di ottenere i fondi necessari alla costruzione del muro che dividerà il territorio americano dal Messico.
The Donald ha sostenuto il progetto dichiarando: «tutti sanno che il Muro serve per fermare il crimine e l’invasione dei trafficanti». Per rafforzare ulteriormente l’efficienza della sua tesi, ha addirittura preso in esempio il muro costruito da Israele ai confini con la Palestina.

Il “muro dell’Apartheid”, fra Palestina e Israele: Alto 13 metri e lungo 570 km, parte dal nord della città palestinese di Tulkarem, scendendo verso i quartieri palestinesi di Gerusalemme fino a sud di Betlemme. Il muro dovrebbe seguire la linea di separazione tra Israele e Cisgiordania, chiamata Linea Verde, che segna le frontiere precedenti alla guerra dei sei giorni del 1967.

D’altronde, in ognuno di questi contesti, gli individui esclusi vengono pubblicamente rappresentati come “minacce” ed “esportatori di barbarie”.

La Questione Mediterranea e gli “Stati-Confine”.

Il caso libico, in particolare, è un esempio di “carcere a cielo aperto”, dove i migranti vengono sistematicamente torturati. Il diritto internazionale scompare in queste terre (volutamente) dimenticate da tutti, mentre gli Stati europei continuano questo accordo tacito di disumanità: migliaia di esseri umani bloccati al di là del mare, ingiustamente detenuti e quotidianamente ignorati da chi si autoproclama detentore della libertà.

Una delle tante immagini trapelate dai lager libici, in cui quotidianamente i migranti, detenuti illegalmente, vengono torturati.

Le prove delle innumerevoli violenze ci arrivano (oltre che dalle cicatrici, dai racconti e dai pochi video girati da chi è riuscito a scappare ed arrivare in Europa) dai referti dei medici volontari a bordo delle navi ONG (organizzazioni non governative, indipendenti dagli Stati e, appunto, dalle organizzazioni governative internazionali).
Ecco uno dei tantissimi casi riportati quotidianamente nei referti:

«Ragazzo, 18 anni. Il paziente riferisce di essere vittima di tortura/maltrattamenti, in Libia in un periodo di circa due mesi di prigionia. Riferisce episodi di maltrattamenti/violenza inflitti con diversi strumenti (bastone, martello, attrezzi per saldatura), in cui ha riportato lesioni contusive e ustioni. All’esame obiettivo il paziente si presenta lucido e coerente nel suo racconto. Si sono riscontrate le seguenti lesioni – Torace: a livello pettorale e dorsale diverse cicatrici compatibili con esiti di ustione. Arti: ad entrambi gli arti superiori e inferiori diverse lesioni cicatriziali, alcune ad evoluzione cheloidea (crescita anormale di tessuto, ndr), compatibili con esiti di ustione».

(Fonte: Fabrizio Gatti, L’Espresso“Ecco come vengono torturati i migranti in Libia: i referti shock della “pacchia”)

L’unica speranza dei migranti risiede, nella quasi totalità dei casi, in un barcone che arranca solcando il Mediterraneo. Tuttavia, queste migrazioni dal Sud del mondo sono ostacolate dagli Stati del nord.
La strategia italiana in merito, ad esempio, non lenisce di certo la gravità della situazione: il numero di vittime di queste torture è in continuo aumento, ma la visione politica del Bel Paese sembra ignorare questo dato (e la vita dei singoli esseri umani che tale dato rappresenta). Lo dimostrano gli avvenimenti in questi giorni della Mare Jonio, nave della piattaforma Mediterranea, sequestrata per un’inchiesta sul favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Il comandante è stato addirittura iscritto nel registro degli indagati ed i 50 stranieri sono stati trattenuti nel centro d’accoglienza di Lampedusa e quindi, ancora una volta, limitati nella loro libertà.

In un mondo sempre più “globalizzato”, i vari percorsi e tragitti degli esseri umani, teoricamente garantiti in quanto cittadini del mondo, vengono nella pratica ostacolati e controllati. La politica, in generale, continua a perseverare la dicotomia amico\nemico, rimanendo ancorata nelle pratiche e ideali tipici della fine del XIX secolo e che hanno investito tutto il ‘900.

Gli Stati continuano a condizionare le decisioni che, nella realtà dei fatti, dovrebbero appartenere alla totalità degli individui, che potenzialmente già dispongono degli strumenti necessari ad essere istantaneamente e costantemente in contatto fra loro. La globalizzazione, gestita dagli accordi tra Stati-Nazione, risulta un processo ante litteram: deriva, infatti, dall’inizio del Novecento, epoca in cui gli imperi coloniali europei gestivano circa la metà delle terre e delle persone nel mondo.
In tempi attuali, l’ideologia dello “Stato-Nazione” vive una crisi che inizia ad essere sempre più evidente, dovendosi scontrare sempre più spesso con un mondo multiculturale, guidato dalla spinta delle libertà individuali, con sempre più possibilità di entrare in contatto con la diversità.

Il XXI secolo sta generando una trasformazione globale che ha varie possibili interpretazioni e previsioni, ma che, in ogni caso, non si arresterà: gli assetti nazionali potrebbero davvero convergere verso un’unificazione di Stati (ipotizzata, in piccolo, dal complotto Kalergi), oppure, probabilmente, potrebbero vertere verso una società totalmente priva di essi.

La scelta è nelle mani di tutti gli abitanti della stessa casa, intesa come mondo. Ora più che mai, queste mani potrebbero unirsi fra loro, innalzandosi oltre i confini fino ad ora stabiliti. Ogni decisione delegata può potenzialmente essere una perdita di crescita e di confronto con altre realtà, con altri esseri umani oltre che con se stessi. La diversità, in fondo, risiede in ogni persona e ognuno, in quanto biologicamente e culturalmente differente, può essere portatore di idee e scelte che, da sempre, animano la storia. Un percorso che è stato, fino ad ora, deciso dai pochi, senza possibilità di scelta, ma che, da sempre, è stato vissuto, contestato e macchiato (anche con il sangue) dai tutti.
Concludo riportando una citazione tratta dal libro “L’Unico e la sua proprietà”, del filosofo tedesco Max Stirner:

«Uno Stato è una realtà presente anche senza il mio concorso: io vengo al mondo in esso, in esso vengo educato, gli sono obbligato e devo rendergli “omaggio”.
Lo Stato, infatti, mi accoglie nella sua “grazia” e di questa io vivo. La sussistenza autonoma dello Stato fa sì, in questo modo, che io non possa essere autonomo e la sua “naturalità” e il suo organismo esigono che la mia natura non cresca liberamente, ma si adatti a esso.
Lo Stato mi aggiusta con le forbici della “civiltà” per poter sviluppare se stesso liberamente, mi dà un’educazione e una cultura che tiene conto delle sue e non delle mie esigenze, m’insegna, per esempio, a rispettare le leggi, a non violare la proprietà dello Stato (cioè la proprietà privata), a rispettare un’autorità divisa e terrena, ecc., insomma m’insegna a essere – irreprensibile, “sacrificando” la mia individualità propria alla “sacralità” (tutto può esser considerato sacro, dalla proprietà alla vita altrui, ecc., ecc.).
È questo il tipo di civiltà e di cultura che lo Stato può darmi: lo Stato mi educa a diventare uno “strumento utile”, un “membro utile della società”.
È inevitabile che ogni Stato, popolare o assoluto o costituzionale, si comporti così. E continuerà necessariamente a comportarsi così finché noi crederemo erroneamente che lo Stato sia un io e legittimeremo dunque la sua pretesa di venir considerato come una “persona morale, mistica o statale».

McMay
(artwork: LaCirasa)