Oltre ciò che crediamo d’essere

Fin dall’antichità, l’essere umano è stato caratterizzato dal desiderio, oltre che dalla necessità, di spostarsi da un luogo ad un altro al fine di trovare le condizioni migliori per poter costruire serenamente la propria vita.

Siamo stati capaci di toccare e navigare ogni luogo della terra, nel tentativo di saziare la nostra fame di conoscenza di spazi nuovi. Il viaggio “di formazione” è stato considerato, fin dall’epoca romana, di fondamentale importanza per la formazione di ogni individuo. Non possiamo, però, tralasciare le spedizioni, le guerre, le conquiste e le colonizzazioni che interi eserciti hanno compiuto, al fine di soddisfare il desiderio comune della stragrande maggioranza dei re, imperatori e dittatori della storia di allargare il proprio dominio sul mondo.
Il viaggio rappresenta, dunque, un aspetto fondamentale per l’uomo, una costante necessità: ne definisce la sua stessa natura, tanto da essere considerato, dall’alba dei tempi, una metafora di vita, caratterizzata da infiniti ostacoli che si susseguono inaspettatamente, ma che, allo stesso tempo, ci spingono ad una nuova consapevolezza personale.

Tale tema è ricorrentemente ravvisabile all’interno della letteratura. Basti pensare, ad esempio, ai celebri versi dell’Inferno dantesco, in cui l’autore, apprestandosi a raccontare il suo percorso nell’aldilà, dichiara che «nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura».

 

Gustave Doré, “Dante nella Selva Oscura”, 1861 – Illustrazione per la Divina Commedia di Dante Alighieri

Altro celebre esempio è Ulisse, protagonista dell’Odissea di Omero, il cui viaggio rappresenta, oltre che l’emblema del ritorno a casa, anche il desiderio inesauribile di conoscenza che caratterizza l’uomo. Tra le varie rielaborazioni del mito di Ulisse, una delle più famose è quella elaborata da Joyce nella sua celebre opera Ulisse (1992). Joyce, all’interno del romanzo, riprende il modello dell’eroe viaggiatore, trasportandolo, però, nella moderna città di Dublino. Leopold Bloom, protagonista del romanzo, è in viaggio tra le vie della città cercando di attribuire un significato alla banalità della sua quotidianità, in un mare di pensieri e in cerca di un senso alla sua esistenza.

Se il mare in cui viaggia Leopold Bloom è quello della quotidianità, è da quello stesso mare che vogliono emergere Sal e Dean, protagonisti del celebre romanzo (che vi raccomandiamo) di Kerouac “On the road”: il loro viaggio è caratterizzato dalla ricerca di un distacco netto dalla quotidianità, oltre che dalla necessità di esperienze sempre nuove e adrenaliniche.

 

Neal Cassady (scrittore ed ulteriore protagonista della Beat Generation) e Jack Kerouac, nella copertina del celebre romanzo autobiografico.

Il percorso dei due protagonisti è in definitiva rivolto al “nulla”, almeno apparentemente. Ciò che conta non è la meta, ma il muoversi in sé: andare, nella speranza di eliminare l’ansia ed il male di vivere che, sempre di più, caratterizzano l’esistenza dell’uomo contemporaneo. L’obiettivo di Sal e Dean è, dunque, quello di sentirsi parte attiva di questo mondo, sentirsi individui in grado di scegliere la propria felicità, di ribellarsi e di essere liberi da qualsiasi vincolo sociale.

Ogni partenza, d’altronde, è caratterizzata dalla ricerca di un distacco rispetto alla quotidianità, dalla riscoperta di un se stesso diverso. Tutto ciò provoca, nel nostro animo, un flusso di pensieri, associazioni ed emozioni. Sensazioni forti, che ci ricordano che siamo vivi, che esistiamo ancora e che, per questo, non dobbiamo farci divorare dalla routine di una vita prestabilita.

Jack Kerouac, con il suo romanzo, ci offre la descrizione di un’America diversa: un’America “vagabonda”, pacifista, anticonformista, ma anche stanca e disillusa.
Kerouac, infatti, è considerato il padre della Beat Generation (il movimento giovanile che si sviluppò intorno agli anni Cinquanta del ‘900 negli Stati Uniti e che ebbe ampia espressione in campo artistico, poetico e letterario). I protagonisti di tale movimento contestavano il conformismo della società materialista, attraverso una ribellione che si configura nella scelta di un’esistenza nomade, vissuta sulle strade. I giovani della Beat generation contrappongono alla falsità e all’ipocrisia della società borghese, il viaggio solitario, condiviso solo con chi accoglie quegli ideali di vita piena.
(Abbiamo già precedentemente scritto nei nostri whispers di un bel film, che ripercorre alcune vicende dell’epoca: ve ne riconsigliamo qui la lettura e la correlata visione)

La società contestata dai giovani della Beat e in particolare da Kerouac è la stessa dalla quale decide di evadere Christipher McCandless (1968-1992), noto anche con lo pseudonimo di Alexander Supertramp: un giovane ragazzo che, terminati gli studi, partì per l’Ovest degli Stati Uniti, con l’obiettivo di compiere un viaggio in solitudine che lo avrebbe portato fino alle terre estreme dell’Alaska. Alexander sceglie il viaggio per ritrovare se stesso, per capire in cosa consiste la felicità per emergere da una società dedita solamente ad un consumismo spietato. Christopher McCandless fu tuttavia ritrovato morto da alcuni cacciatori il 12 agosto 1992 nel Parco nazionale di Denali, ma la sua storia rimarrà impressa grazie al libro di Jon Krakauer “Nelle terre selvagge”, che racconta la vita del nomade statunitense, correlato all’adattamento cinematografico Into the Wild” di Sean Penn.

 

Foto originale di Christopher McCandless, scattata durante il suo viaggio.
Il viaggio come inizio, il viaggio come fine, il viaggio come evasione, il viaggio come crescita.
Ognuno di noi è spinto a partire, non dalla voglia di riposarsi in un luogo diverso dal parco sotto casa, ma dalla voglia di evasione vera rispetto a questa quotidianità che ci spegne lentamente ogni giorno.

Per questa ragione, l’ampliare la nostra esperienza si configura come un qualcosa di necessario per la nostra mente, ma soprattutto per la nostra personalità. In un posto completamente nuovo e circondati da persone che probabilmente non rivedremo mai più, non abbiamo più vincoli o condizionamenti che ci tengono legati a terra: abbiamo la possibilità di essere “qualsiasi cosa vogliamo” o, più, semplicemente essere appieno noi stessiè proprio nel momento in cui abbiamo un’infinità possibilità di scelte di fronte a noi che comprendiamo davvero ogni aspetto ci caratterizza. La routine reifica l’essere umano, lo rende un oggetto, “una macchina produttiva”, un “ingranaggio per il corretto funzionamento della società”.

È la stessa routine a cui fa riferimento, ad esempio, Mark Renton nel monologo finale del celebre film “Trainspotting” (di Danny Boyle, 1996):

«Allora perché l’ho fatto? Potrei dare un milione di risposte, tutte false. La verità è che sono cattivo, ma questo cambierà, io cambierò. E’ l’ultima volta che faccio cose come questa, metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto: scelgo la vita.
Già adesso non vedo l’ora, diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l’apriscatole elettrico, buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d’ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale… tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai
».

Ewan McGregor nei panni di Mark Renton, nella scena finale del film cult di Danny Boyle

Il monologo che conclude Trainspotting è una “dichiarazione d’intenti” verso il futuro (dal sapore amaro, quanto tangibile): il protagonista decide di “scegliere la vita”, uniformandosi a tutto ciò che è considerato “normale” nella società contemporanea. Tutto ciò che viene prestato come “la normalità” dal protagonista all’interno del monologo, viene a configurarsi nella realtà dei fatti come una prigione quotidiana e invisibile, che ci schiaccia e ci spegne.

Il viaggio, d’altronde, è questo: un’evasione da questa prigione invisibile, un distacco, un attimo di respiro. E’ proprio questa sensazione di libertà assoluta che ci rende felici e ci aiuta a capire come conseguire la nostra personale felicità.

Vorrei dunque concludere questo saggio riportando le parole della lettera di Christopher McCandless all’amico Ronald Franz:

«C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo»

Ronald Franz

Quello di cui ci siamo circondati è davvero la nostra felicità? È giusto svegliarsi ogni giorno sapendo già cosa ci aspetta? Non è assurdo che ci serva evadere dalla nostra vita per sentirci davvero vivi?

Prix
(ph: T. Supertramp)