Panopticon

«Da dove viene la prigione? Un po’ ovunque»

Jacques Derrida

Una torre centrale, circondata da una costruzione circolare. Dentro la torre si trova stanziato l’osservatore. Intorno a lui, all’interno della costruzione circolare, sono situate le celle dei prigionieri, separati da muri invalicabili: in questo modo i carcerati possono essere osservati contemporaneamente, costantemente, dalla stessa posizione. Un controllo pervasivo, totale e continuo. Così era stato progettato da Jeremy Bentham (filosofo e giurista inglese) il Panopticon: un carcere “ideale” che, proprio per la sua architettura, consentiva di osservare e controllare costantemente tutti i carcerati, senza che essi se ne accorgessero.

L’idea originale del Panopticon di Bentham

Tale progetto, ai tempi scartato (ma realizzato più di due secoli dopo a Cuba), ebbe una risonanza tale che spinse Michel Foucault ad utilizzarlo come metafora per rappresentare quel nuovo tipo di potere che si stava affermando nella seconda metà del ‘900.

Il nuovo potere, descritto da Foucault in Sorvegliare e punire (1975), è un potere che non agisce dall’alto: non esclude o reprime a prima vista, ma si impone attraverso una subdola capillarità, che investe ogni tipo di istituzione disciplinare. Il potere, dunque, risulta “sparso”, “tentacolare”, distribuito: nelle istituzioni militari, nelle quali l’addestramento ed il seguire rigidamente determinate regole risulta “fondamentale per la formazione”; all’interno delle fabbriche, in cui gli operai, seduti, ripetono perennemente determinate procedure; nelle strutture scolastiche, in cui gli studenti sono forzati ad assumere una determinata posizione sui banchi, tutti i giorni, per molte ore, costretti a vivere in un clima di ristrettezza mentale: imparano a memoria nozioni e sono sottoposti ad una pressione psicologica e fisica, che li trasforma in numeri sul registro o in semplici voti scritti su una pagella.
La creatività, in questi contesti, viene, nella maggior parte dei casi, sostituita con un puro nozionismo e le menti vengono svuotate e riempite con concetti e significati “nuovi” (imposti come “la prassi”, “la verità”). Una volta anestetizzato il giudizio critico, in tale clima, gli studenti risultano completamente estraniati dalla realtà. È chiaro, dunque, che il vero potere, affermatosi nella seconda metà del ‘900 e probabilmente ancora operante, non è più esercitato solamente attraverso lo stato, che impone direttamente determinate leggi e regole dall’alto, ma agisce attraverso questa nuova e subdola strutturazione della società.

 

«Se la prigione assomiglia agli ospedali, alle fabbriche, alle scuole, alle caserme, come può meravigliare che tutte queste assomiglino alle prigioni?».

Michel Foucault

Il Panopticon cubano, ormai dismesso.

È l’intera realtà che ci circonda a identificarsi come una prigione invisibile, che controlla, alle nostre spalle, ogni parte della nostra vita. Il potere, come sottolinea Foucault, è pensato da chi lo esercita come una strategia perpetua in grado di produrre realtà, cioè in grado di plasmare la società in un determinato modo. L’individuo contemporaneo si configura, in questo modo, come il prodotto di una specifica e costante tecnologia disciplinare, che caratterizza e domina tutta la sua esistenza.

Se il potere contemporaneo è in grado di produrre realtà, la televisione, invece, è lo strumento per eccellenza in grado di creare bisogni continuamente “nuovi”. D’altronde, sempre in questo contesto, si inserisce la riflessione di Pasolini sul ruolo pervasivo della televisione, in grado di modificare la nostra personalità e il nostro modo di essere al mondo.

Come sottolineato da Pasolini, la tv mira ad educare il bambino al fine di farlo diventare, piuttosto che un buon cittadino, un buon consumatore. Seguendo questo schema di pensiero, è chiaro che la felicità finirà per coincidere con la possibilità di soddisfare, e quindi consumare, quanti più bisogni possibili. Il dissenso, in questo contesto, non viene represso, ma, anzi, i meccanismi di potere operano affinché non possa neppure costituirsi. Ancora una volta, anestetizzato lo spirito critico, gli individui diventano dei bambini in cerca di godimenti mercificati.

D’altronde, è proprio facendo leva su questo desiderio artificiale (e mai soddisfatto) che i bisogni si moltiplicano sempre più velocemente. Non è un caso, a questo punto, che il valore dominante nella nostra società possa essere considerato proprio la velocità: è come se qualcuno, inseguendoci, ci stesse spingendo verso una meta sempre più lontana, una meta che neanche riusciamo ad intravedere. È quindi necessario, ad esempio, ottenere una laurea nel minor tempo possibile al fine di avere più possibilità per entrare nel mondo del lavoro o anche, semplicemente, comprare il computer più veloce ed efficiente, al fine di ottenere informazioni nel minor tempo possibile o guardare un film senza fastidiose interruzioni. Scegliamo il mezzo di trasporto più veloce, in modo da giungere immediatamente nel luogo che vogliamo visitare, oppure cerchiamo la trama di un libro o di un film su Wikipedia anziché leggerne ogni pagina o vederne ogni scena dal momento che farlo, chiaramente, richiederebbe più tempo.

Ognuno di noi, in quanto individuo contemporaneo, si sente circondato dal nulla, ma comunque proteso verso qualcosa che non conosce. Si tratta di una tensione inesauribile verso il vuoto. Se la velocità è il valore dominante della società contemporanea, l’insoddisfazione è sicuramente la caratteristica che meglio ne delinea la fisionomia. Una volta raggiunto il piacere, risultato dal soddisfacimento di un bisogno (concreto o astratto che sia), tale piacere si rivela poi labile ed effimero: non appena raggiunto sparisce immediatamente. Ne deriva una tensione continua, una velocissima gara che si conclude con l’insoddisfazione e la malinconia. La società contemporanea ci impone subdolamente di non fermarci, di non stabilizzarci e di non raggiungere mai la piena felicità.

Impegnati in questa continua corsa, l’esercizio della ragione viene meno. Non c’è tempo per fermarsi a riflettere, per analizzare e valutare. Condannato ad uno stato di dormiveglia, placato il suo giudizio critico, l’individuo continua la sua esistenza caratterizzata da ansie e preoccupazioni, create artificialmente dalla società. E’ in balia di un frenetico frastuono di sottofondo che lo rende incapace di reagire o anche solo individuare e coltivare le proprie aspirazioni ed i propri desideri: ciò che, di fatto, ci caratterizzano come individui singoli e ci fanno emergere, distinguendoci, dalla massa.

La società del XXI secolo si mostra come il coronamento (apparente) della libertà universale, ma nella realtà dei fatti è pervasa da meccanismi di potere e asservimento latenti e subdoli come mai prima d’ora, che ci distolgono da ciò che siamo e da ciò che vorremmo essere.

Siamo circondati, costretti fra queste mura costituite da bisogni sempre nuovi e sempre diversi. Mura così grandi che sovrastano, crescono e mutano ogni volta che ci illudiamo di scalfirle, ogni volta che tentiamo di soddisfare un bisogno eliminandolo dalle nostre necessità. Mattone su mattone, mura che ci imprigionano ogni giorno di più.

Credo, a questo punto, che il nodo centrale del cambiamento si intrecci proprio a partire da questa constatazione: quello che dovremmo fare, infatti, è distruggere dal basso questa muraglia che ci è stata imposta, dimenticandoci ed ignorando il singolo desiderio creato artificialmente (e che crediamo indispensabile), ma individuando ciò che desideriamo realmente: le nostre aspirazioni, ciò che siamo come individui e cosa vorremmo diventare nel mondo, emergendo dalla frenetica confusione che ci circonda e conseguendo, così, la nostra personale e duratura felicità.

Prix
(ph: Svario)