Tortura di Stato

Gli eventi del G8 e la condanna per reato di tortura dell’Italia

Due colpi e poi le grida. Sono le 17.27 del 20 luglio 2001, disteso a terra senza vita c’è il corpo di Carlo Giuliani, 23 anni. Ad ucciderlo è stato un colpo di pistola sparato dal carabiniere Mario Placanica, che si trovava insieme ad altri due colleghi all’interno di un Land Rover Defender. Dopo i due spari, l’autovettura, nel tentativo di fuggire dai manifestanti, passa due volte sul corpo ormai senza vita del giovane ragazzo, in mezzo alle grida di chi esclama «bastardi» e «merde».
Sembra la scena finale di un film poliziesco finito in modo infausto, ma per quanto assurda possa sembrare, tutta la vicenda fu registrata dei filmati degli operatori presenti sul posto ed è ancora disponibile alla visione di chiunque su Youtube.

I giudici stabilirono che Placanica aveva sparato per “legittima difesa” ed il procedimento aperto nei suoi confronti fu archiviato nel 2003.
La morte di Carlo Giuliani è legata ai disordini avvenuti a Genova il 20 luglio del 2001 in Via Tolemaide, dove si verificarono violenti scontri tra manifestanti anti-g8 e forze dell’ordine. È durante uno di questi scontri che Carlo, con il volto coperto da un passamontagna, raccolse e sollevò un estintore con l’intenzione di lanciarlo contro il Land Rover dei carabinieri. Da lì due spari, uno dei quali lo colpì sullo zigomo sinistro e pochi minuti dopo fu il silenzio, e la morte.
Probabilmente la morte di questo ragazzo non è neppure l’evento più sconvolgente che caratterizzò quei caldi giorni di Luglio, macchiando per sempre il volto del nostro paese.


(al minuto 4:16, 4:56 e 6:07).

Nei sei anni successivi, infatti, lo Stato subì alcune condanne per gli abusi commessi da parte delle forze dell’ordine. Il 7 aprile 2015, la Corte Europa per i diritti dell’uomo condannò l’Italia per il crimine di tortura, in occasione delle manifestazioni contro il G8 di Genova, facendo riferimento in particolare all’operazione Diaz ed i successivi fatti di Bolzaneto. L’Italia venne condannata all’unanimità come responsabile del crimine di tortura e per l’inadeguatezza della legislazione penale nella sanzione di simili condotte. Il 6 aprile 2017 l’Italia, di fronte alla stessa Corte, ammise la propria responsabilità per gli atti di violenza fisica e psichica da parte delle forze dell’ordine. La ricostruzione dei fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto, effettuata sulla base degli atti di processo di primo grado della Corte d’appello di Genova, mette bene in evidenza l’inaudita violenza con cui vennero trattati i manifestanti. Sono sconvolgenti le testimonianze delle vittime, soprattutto se si considera il fatto che queste violenze siano state inflitte da coloro che dovrebbero garantire la sicurezza in un paese “libero” e “democratico”.

Ad emergere dalle testimonianze raccolte è infatti un quadro a dir poco sconvolgente, che ci lascia quasi increduli di fronte alla disumanità con cui vennero trattati i manifestanti. Non solo le forze dell’ordine, ma anche medici e infermieri davano il benvenuto ai tanti ragazzi in stato di fermo rievocando Auschwitz e il nazismo, per poi sottoporre donne e uomini a violenze fisiche e psichiche a sfondo sessuale.

Negli atti processuali è presente, ad esempio, il racconto di Silvano:

“fermato senza motivo, rilasciato senza arresto, dopo aver firmato che niente di grave gli è accaduto, gli hanno spaccato il naso, lo hanno pestato al bagno a manganellate sulla schiena e un calcio nei testicoli finché non è crollato sul pavimento, ma mentre sta fermo in cella, faccia al muro, gli si avvicina qualcuno alle spalle che dice […] ‘che ci avrebbero ammazzati tutti quanti con una siringa, con una iniezione ci avrebbero fatti fuori tutti perché siamo zecche e le zecche vanno uccise”.

(tratto da: “Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto” di Roberto Settembre)

Uno dei gesti più umilianti, testimonianza di questa assurda e gratuita ferocia di Stato, fu il taglio selvaggio dei capelli di alcune ragazze. Come riportato da Settembre stesso fra i mille vissuti raccontati nel libro sopracitato, ad una giovane donna «una poliziotta le si avvicina con le forbici e le taglia una ciocca di capelli», «le due poliziotte le si fanno addosso, una impugna le forbici e l’altra cerca di immobilizzarla, mentre la giovane donna urla, si divincola, si contorce». Inoltre, alle ragazze con il ciclo mestruale gli agenti ordinano di «sedersi nel vomito» e alla richiesta di assorbenti, le poliziotte risposero gettando della carta di giornale in mezzo alla cella.

Il tutto si svolgeva nel silenzio più assordante, a risuonare in sottofondo era solamente «Faccetta nera, bell’abissina. Aspetta e spera che già l’ora si avvicina!» con inneggiamenti ad Hitler da parte degli agenti italiani. 

Che tutto questo possa essere accaduto all’interno di una “società democratica” fondata sul riconoscimento del diritto dell’integrità del corpo e della libertà di pensiero, è qualcosa di assurdo e raccapricciante. Probabilmente ancora più raccapricciante è che non tutti sanno con certezza quello che successe in quei caldi giorni di luglio del 2001 e soprattutto che ancora oggi, alcuni politici italiani mettano in discussione la necessità della presenza del reato di tortura nel codice penale.

Il tono di incondizionata condanna utilizzato dalla sentenza del tribunale di Strasburgo colpisce davvero molto:

The case concerned events which occurred at the end of the G8 summit in Genoa in July 2001, in a school made available by the municipal authorities to be used as a night shelter by demonstrators. An anti-riot police unit entered the building around midnight to carry out a search, leading to acts of violence.

The Court found, in particular, that, having regard to all the circumstances presented, the illtreatment sustained by the applicant when the police stormed the Diaz-Pertini school amounted to “torture” within the meaning of Article 3 of the Convention.

Inoltre, nella sentenza di condanna, la Corte di Strasburgo fa riferimento al caso particolare di Arnaldo Cestaro, un uomo di sessantadue anni che si trovava all’interno della scuola Diaz (messa a disposizione dalle autorità comunali come un “luogo di rifugio”). Nel momento in cui le forze dell’ordine fecero irruzione, l’uomo subì da parte della polizia gravi violenze alla testa, alle gambe e alle braccia, mentre si trovava seduto contro il muro a braccia alzate, totalmente inerme. Si trattò, come riportato dal tribunale di Strasburgo, di una violenza totalmente gratuita dal momento che non ci fu nessuna prova di qualsiasi tipo di resistenza da parte di Arnaldo contro la polizia. Quella notte venne portato in ospedale con dieci costole rotte, un braccio ed una gamba rotte, la testa piena di ematomi e il corpo pieno di lividi. L’uomo fu operato all’ospedale di Genova. Le ferite, riferisce la Corte, gli hanno procurato danni permanenti, con una debolezza permanente del braccio e della gamba destra. Come sottolineato dalla Corte stessa, la violenza subita dall’uomo corrisponde ad una vera e propria tortura, che si caratterizza per il carattere acuto delle sofferenze fisiche e psichiche e per il carattere intenzionale con cui vengono inflitte tali sofferenze.

Oggi ho 75 anni ma non cancellerò mai l’orrore vissuto. Ho visto il massacro in diretta, ho visto l’orrore del nostro Stato. Dopo quindici anni, le scuse migliori sono le risposte reali, non i soldi. Il reato di tortura è una cosa legale.

Arnaldo Cestaro

A questo punto, dopo aver preso in considerazione alcuni dei casi sconcertanti di tortura da parte dello Stato che hanno caratterizzato le manifestazioni anti-g8, le parole utilizzate da Matteo Salvini durante una manifestazione davanti a Palzzo Chigi insieme al Sap (sindacato autonomo di Polizia) nel giugno 2015, quindi a pochi mesi dalla condanna della Corte di Strasburgo, appaiono sconcertanti:

La Corte europea dei diritti umani potrebbe occuparsi di altro. Per qualcuno che ha sbagliato non devono pagare tutti. Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi”.

E ancora più assurda, a questo punto, è la proposta da parte di Fratelli d’Italia nel luglio 2018 di abrogare la legge della scorsa legislatura con cui era stato introdotto, dopo numerosi richiami dell’Europa, il reato di tortura ed al tempo stesso aumentare le pene per i reati di resistenza a pubblico ufficiale. Giorgia Meloni, leader del partito Fratelli d’Italia, scrive in un tweet che «il reato di tortura impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro».

Forse la Meloni, e chi con lei, non ha ben chiaro il fatto che il lavoro degli agenti di polizia consisterebbe nel garantire sicurezza, non nell’umiliazione, nella tortura e nell’uccisione di uomini e donne che inermi si trovano in loro potere. Lo stato per primo dovrebbe limitare la possibilità di abuso di potere per difendere la libertà e la sicurezze di ogni cittadino. 

Serve altro da evidenziare per comprendere la situazione paradossale e assurda che macchia l’Italia da quel luglio 2001?
Sì. La nomina a vice capo della Direzione Investigativa Antimafia di Gilberto Caldarozzi, nonostante una condanna per falso a 3 anni e 8 messi in relazione alla vergognosa operazione Diaz, e la nomina di Pietro Troiani a dirigente del Coa (Centro operativo autostrade di Roma e del Lazio), il 21 dicembre scorso, altro protagonista centrale durante l’irruzione nella scuola. All’epoca, Pietro Troiani sapeva che a bordo della sua jeep c’erano due molotov recuperate precedentemente e ordinò al suo autista di portarle nella scuola mentre era in corso la perquisizione. Il sacchetto con le bottiglie incendiarie passò fra le mani della polizia e venne alla fine sbandierato come la prova principale per l’arresto dei presunti black bloc.

Dopo le critiche delle vittime e dei famigliari dei manifestanti torturati (perché di tortura si è trattato) e arrestati con false prove nella scuola Diaz, il Dipartimento di pubblica sicurezza ha tenuto a precisare che, come per Caldarozzi, tecnicamente non si è trattata di una promozione dal momento che Troiani resta vicequestore proprio come Caldarozzi resta primo dirigente. Se tecnicamente, però, non si tratta di una promozione, è comunque innegabile che i due incarichi, vice direttore dell’antimafia e dirigente del Coa, siano considerati “ruoli apicali” all’interno della stessa polizia. Dunque, ancora una volta, a distanza ormai di 4 anni, sembra essere stata totalmente trascurata l’indicazione dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella condanna, chiedeva al nostro paese di provvedere anche al blocco delle carriere dei funzionari che coprirono i torturatori materiali di Diaz e Bolzaneto.

Gli accadimenti che si verificarono durante il G8 di Genova potrebbero essere considerati da molti come eventi eccezionali, non comuni, una spaccatura o una discontinuità all’interno della nostra storia italiana dominata da giustizia, buon senso, legalità e solidarietà; ma tutti ben sappiamo che questi abusi di potere non sono qualcosa di raro, basti pensare all’ormai noto caso di Stefano Cucchi, morto a 31 anni in seguito alle violenze subite da parte delle forze dell’ordine durante il periodo di custodia cautelare.

La polizia, sulla carta, dovrebbe rappresentare la sicurezza dello stato. Coloro che dichiarano la necessità di abolire il reato di tortura per lasciare maggiore libertà alle forze dell’ordine non comprendono che qualora si dichiari che la tortura è accettabile in alcuni casi, si assume di conseguenza che torturare è qualcosa di socialmente lecito, determinando la possibilità che si ripetano eventi tragici come quelli che caratterizzarono le manifestazioni di Genova e precludendo la possibilità ad ogni vittima di tortura di recuperare i legami sociali infranti e la fiducia nei confronti dell’altro. La tortura, infatti, si configura come la frantumazione intenzionale (voluta da un altro uomo come me) della personalità e della dignità della vittima attraverso l’inflizione di gravi sofferenze fisiche e psichiche. La tortura rappresenta per la vittima il venir meno di ogni possibilità di relazione umana, rappresenta il mettere a tacere ogni legame sociale, il mettere a tacere la fiducia nei confronti dell’altro che sta alla base della nostra identità, personalità e dignità.

Il fatto che Salvini o la Meloni esortino all’abolizione del reato di tortura per una maggiore sicurezza della comunità indica una loro volontà di trasformare quelli che sono i diritti fondamentali e indiscutibili di ogni individuo in diritti relativi, che possono essere sacrificati in nome della sicurezza pubblica. Il mettere in discussione il reato di tortura, insieme alle derive autoritarie e al ritorno esplicito del razzismo, evidenziano il carattere decadente e regressivo del momento presente, un momento nel quale i diritti soggettivi fondamentali, incondizionati e inviolabili sembrano avere un prezzo: il prezzo della “sicurezza pubblica”.

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