Corsette in Piazza di Spagna

E’ un gran mattino, il sole splende alto nel cielo terso e i raggi portatori di luce accarezzano ogni città dell’Impero, senza tregua il vento spira in ogni direzione…Voi la conoscete? Conoscete questa storia? No, non la conosce nessuno, perché questa storia non é mai avvenuta e io non ne sono testimone, bensì il mero creatore che, affidatosi alla sezione più disordinata della sua mente, può affermare di conoscere questa storia, ma sappiate che questo non implica che sappia come l’ho sviluppata, dunque mi limiterò a raccontare.


Guardò la propria immagine riflessa nello specchio e si vide brutto e tozzo quale era sempre stato, quindi, nell’intenzione di rivolger il pensiero verso altri orizzonti di consapevolezze, si diede una grattatina alla testa come per stimolare la propria mente, digrignò i denti in una smorfia, quindi prese a radersi e su ogni goccia di acqua mista a schiuma scorreva un pensiero del mattino; aveva avuto un sobbalzo interiore mentre attraversava il lungo corridoio che collega la camera da letto alla toilette, un intimo sussulto personale che lo aveva colto mentre incedeva a piedi scalzi verso la vasca dalle finiture dorate, come se una divinità avesse profuso una folgorante intuizione su di lui e, per alimentare la grandezza della visione estatica, lo stesse incitando a concepirla per darle forma e per articolarla.

Dopo un vago monologo di tre ore intorno alla politica e a beni primari quali sabbia e cammelli, peraltro accompagnato da schiamazzi tratti dal Nabucco e dalla Danza delle Ore (la povera anima del Ponchielli), si decise a vestirsi, impiegò un’ora e mezza per indossare e sistemare la divisa, poi, inserita la daga nel fodero ricoperto di avorio istoriato, marciò di corsa lungo un corridoio in penombra e la sua divisa grigio-verde si annullava lentamente nel buio, passo dopo passo, fino a che non si sentirono i meccanismi di un grande portone scattare e quei passi, divenuti piccoli e leggeri, scadere nella tenebra che si espandeva sino all’interno di quella stanza appartenente a lui, a lui solo, nella quale solo ed esclusivamente lui poteva entrare, neppure la servitù, motivo per cui erano nate leggende su quello strano luogo e sulla quantità di sporcizia presente al suo interno, dal momento che nessuno vi eseguiva le dovute pulizie giornaliere.

Nella sua stanza personale si trovava la sua parete personale, ed essa era stata costruita, oltre che per evidenti necessità strutturali, per un fine specifico nel quale risiedeva il motivo dell’esistenza di quell’ambiente così oscuro, così freddo, quella parete era diversa dalle altre, particolarmente rovinata e tutta cadente: un colpo di daga si abbatté come vari affondi e fendenti simultanei contro quel muro, un altro colpo e un altro ancora.

Così era ogni giorno, ogni santo giorno, nel vano tentativo di risolvere qualche piccolo problemino di collera repressa.

Benito, forte di quattro caffè, otto mignon e un cannolo, rotolò elegantemente sino alla portiera della macchina, cercando di non dare a vedere quanto e come stesse rotolando, dieci guardie si disposero in due fila a sinistra e a destra della berlina e, tempestivamente anche se con qualche goffaggine, l’autista fece accomodare Adone, volevo dire “Benito”, all’interno dell’automobile e questi, prima ancora che l’autista potesse posizionarsi di fronte al volante, gli ordinò di accompagnarlo al Vittoriano, poichè quello era il luogo designato dal sogno, il luogo in cui avrebbe potuto formulare con parole la propria intuizione, ed era così febbrilmente eccitato da sembrare matto, anzi proseguì nella degenerazione fino a raccontare tutto all’autista, il quale, probabilmente, finse di non credere alle proprie orecchie, mentre egli, baldanzoso sui sedili posteriori, riprese con quegli schiamazzi e con quegli urletti in farsetto ora inneggianti al Parsifal, talvolta interrotti dal meteorismo alimentato, fra i tanti vizi, dalle pesanti colazioni….. Tra pericolo e delirio giunsero al Vittoriano; il suo scarpone lustrato si profilò lento lungo il cordolo del marciapiede e si adagiò solo dopo qualche secondo, egli attese, si appoggiò al finestrino premendovi sopra la mano a palma aperta e a questo punto si potrebbe forse dedurre che ebbe qualche dubbio circa ciò che stava per fare, ma lui alzò il mento e arricciò il labbro superiore, si alzò.

Un pomo lucente salì audacemente gli scalini, ondeggiando celere sulla pietra argentea.

Dopo un’ora di scalini toccò una delle colonne, poté avere finalmente sollievo e giovamento, ma, sentendosi ora il cuore sul punto di esplodere e di sbriciolarsi, si spostò e si riparò all’ombra procuratagli dalle foglie d’acanto di un capitello, poi osservò di sottecchi i due propilei agli estremi del sommoportico, a destra e a sinistra, e subito riafferrò i suoi desideri ridestandosi in tutto il corpo, riprese le forze in pochi secondi e, sospinto dalla colazione che si agitava nello stomaco, camminò a passo sostenuto sino alla larga terrazza che domina Roma. Doveva essere lì, dove se non di fronte al sacello? Sotto gli occhi del fantasma del Milite Ignoto?

Ma non era lì. No, lì non c’era. Non c’era niente, ma niente di niente, ed ecco che ad un tratto si sentì una voce amica, una voce patria, che invitava e indicava la direzione nel buio, portandolo da qualche parte, in un cunicolo, dietro un angolo o in qualche stanza segreta, la divinità forse voleva davvero parlare con lui, ma Benito non capiva, non comprendeva e, approssimandosi sulla soglia di una porta nera come la pece, pensò di essere stato preso in una trappola, ma là in fondo un globo dorato si manifestò brillando di luce propria, ecco la dea Roma o, forse, una rivelazione cristiana che si manifestava in questa forma strana, come di luce solida.

Il globo parlò, Benito ammutolì, provò a prendere in mano la parola, ma non riuscì ad esprimersi, fece errori di italiano ed ebbe l’ennesimo tuono intestinale.

Il globo, bellissimo ed intenso, perfetto, quasi parmenideo, si annullò perdendo intensità lentamente, in maniera analoga ad una stella che muore, ma quel bagliore non si tramutò in esplosione, bensì scomparve e Benito, solo in quel momento, seppe cosa fare.

Ah Benito, Benito, che fortuna! Una mattina ti alzi con una visione per la testa, ti rechi al Vittoriano e una divinità o entità superiore che sia ti consiglia spontaneamente e, omaggiandoti, dice di averti procurato nuovi spasimanti “seguaci”, “seguaci” particolari, insoliti e confusamente descritti da quella voluminosa bolla di luce che, per alcuni minuti o poco più, troneggiò fra i sentimenti e le allegorie fusi nella struttura di quel luogo patrio… Ma quanto sei fortunato! Quindi si dovrebbe pensare che il divino fece il tuo interesse in quell’occasione… E, inoltre, ti disse che tutto sarebbe avvenuto presso Piazza di Spagna.

Buono a sapersi.

La berlina sgommò e frenò di colpo e lui, solo lui, unico uomo presente, corse a perdifiato pensando a chissà che cosa, non sapendo realmente che fare…. Ed ecco, gioia degli occhi! Dai tombini uscirono mantidi alte metri, queste blatte orrende, terrificanti e assetate di carne e sangue, emettevano striduli versi che seguivano pedantemente la corsa del disperato, andando a tempo con i tacchi dei suoi stivali, assieme a lui disegnarono traiettorie per tutta la piazza, forse in eterno; e io ora mi allontano dalla piazza e guardo questa scena dall’alto, si sentono i mantidoni squittire e un botolo abbaiare qualcosa circa gravi accuse di tradimento, bofonchiando di tutto intorno a cospirazioni politiche, parlando per enigmi, e non si ferma e continua correre con le braccia al vento come una piccola ed impaurita vivandiera in divisa.

Fu così che da qualche parte, in qualche tempo, tre o quattro mantidoni agguerriti forse inseguirono e forse divorano il succulento principe del grano.

Raimondo
(artwork: LaCirasa)