Uomo vs Uomo

Tra i vari fogli di giornale conservati, di recente mi è capitato di imbattermi in un articolo del 1887, pubblicato sulla prima pagina nel quotidiano di Firenze “La Nazione”.
Nell’articolo in questione, il giornalista descriveva dettagliatamente la terribile esecuzione di un criminale, di fronte alla folla esultante. Leggendo le parole utilizzate dal giornalista nel descrivere l’esecuzione, sono rimasta particolarmente colpita:

Come prima si seppe a Parigi chè il ricorso in Cassazione era stato respinto, la piazza del Roquette si converse in vasto e libero teatro notturno […], tutti i suoi accessi furono presto ingombri. Quando la testa fu mozza, uomini, donne e ragazzi si precipitarono intorno al palco, per vedere il sangue: e non solo per vederlo, ma per toccarlo: e non paghi di toccarlo, ne raccolsero le stille ancor calde nei fazzoletti luridi di fango: e gloriosi della nobile bandiera, dopo averla agitata al vento a mo’ di trionfo, ne bruttarono il volto delle femmine che li circondavano.

(La nazione – Venerdì 2 settembre 1887)

La testa che rotolò in terra tra la folla era quella del condannato a morte Enrico Pranzini (1856-1887), uomo di origini italiane nato ad Alessandria d’Egitto. Dopo aver partecipato alla guerra in Afghanistan, Enrico giunse a Parigi dove il destino lo fece incontrare con le sue tre vittime: Marie Régnault, Annette Gremeret, e Marie-Louise. Secondo quanto sostenuto durante il processo a suo carico, infatti, nella notte tra il 16 e il 17 marzo 1887, al numero 17 di via Montaigne a Parigi, Enrico Pranzini uccise brutalmente le tre donne, tagliando loro la gola con un’inaudita ferocia. Fu poi catturato il 21 marzo a Marsiglia. La condanna e la seguente esecuzione avvennero il 31 agosto.
Fino alla fine, con aria beffarda e quasi di sfida, Pranzini si dichiarò innocente.

Nel leggere i particolari dell’esecuzione riportati, non solo si prova un profondo senso di orrore, ma, allo stesso tempo, si comprende come la nostra mente eviti inconsapevolmente di riconoscere il grado di vergognosa degradazione a cui può abbassarsi l’essere umano.
Si tratta di una descrizione nella quale «l’eroe sanguinario passa in seconda linea, perché la cornice supera di gran lunga il quadro».
Quello che colpisce il lettore, infatti, indipendentemente dalla colpevolezza o meno del condannato, è la crudeltà “passiva” della folla, di fronte alla brutale esecuzione di un uomo. Una folla che, ubriaca, quasi in estasi, si mostra desiderosa di vedere con i propri occhi la terribile morte di quel condannato.
La folla osserva il supplizio come se fosse, paradossalmente, una vittoria della vita contro il male. Il male viene soppresso, tagliato via, e questa si sente legittimata ad esultare entusiasta, come se ognuno di noi si sentisse davvero un po’ meglio nel veder morire un criminale. Come se ci sentissimo più puliti, più liberi, più sicuri e quindi più felici.

È facile essere contrari alla pena di morte quando a morire è un innocente, diventa forse più difficile esserne contrari quando a morire è un assassino che, senza pietà, uccide brutalmente tre giovani donne. Nel momento in cui la vendetta, sentimento primitivo e costitutivo dell’essere umano, prende il sopravvento sulla razionalità, allora sembra giusto che un uomo colpevole di omicidio muoia a sua volta, di fronte agli occhi assetati di sangue di mille “non peccatori.
La folla, infatti, secondo Le Bon (antropologo e sociologo francese) è lo spazio dove l’emotività, l’irrazionalità e le passioni inconsce, tenute a freno della coscienza individuale, esplodono favorite dal mimetismo con le condotte altrui.

Enrico Pranzini fu condannato a morte, tra la folla esultante, nel 1887. Uno dei tanti, specie per l’epoca, non il primo, né l’ultimo. Ancora oggi però, a distanza di più di un secolo, la situazione non sembra cambiata radicalmente.

Sebbene Amnesty International (che da anni, fra le varie campagne, monitora ed è attiva su questo fronte) abbia registrato una diminuzione di circa il 4% delle esecuzioni rispetto al 2016 e di circa il 35% in meno rispetto al 2015, ancora molti paesi non hanno abolito la pena capitale.
La maggior parte delle esecuzioni ha luogo in Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan.

In Iran, ad esempio, il codice penale prevede la morte mediante lapidazione per le adultere e per alcuni reati gravi.
Il codice penale iraniano precisa, addirittura, le dimensioni delle pietre che devono essere utilizzate per la lapidazione: “le pietre non dovrebbero essere tanto grosse da uccidere un condannato al primo o al secondo colpo, né tanto piccole da non poter essere definite vere e proprie pietre”.

In Pakistan, il reato detto “zina”, che riguarda le relazioni pre ed extra coniugali, è punito con la fustigazione o con la lapidazione. La cosa più sconcertante, a tal proposito, è che corrono il pericolo di essere accusate di adulterio anche le donne che sono state violentate.

Gli Stati Uniti, invece, assieme al Giappone, sono l’unico paese industrializzato, completamente indipendente e democratico che applica ancora la pena di morte. Tuttavia, soprattutto negli Stati Uniti, l’utilizzo della pena capitale comincia ad essere più raro. Le esecuzioni sono state 28 nel 2015 e 20 nel 2016 (i numeri più bassi di condanne registrate dal 1991).
Amnesty International denuncia, inoltre, un ulteriore aspetto che contravviene ad ogni standard del diritto internazionale: la “segretezza” delle uccisioni: in Giappone, queste ultime vengono inflitte con pochissimo preavviso al detenuto, mentre i famigliari, gli avvocati e l’opinione pubblica sono informati solamente a esecuzione avvenuta. Gli esperti delle Nazioni Unite riportano che ai difensori è negata la possibilità di svolgere il loro lavoro in modo appropriato. Inoltre, i prigionieri sono soggetti alla tortura della luce accesa 24 ore su 24 e ad altre imposizioni, come il restare seduti a schiena dritta per tutto il giorno. In una cella d’isolamento di cinque metri quadrati, non possono parlare con altri detenuti e vivono nella costante ansia di un’esecuzione imminente, con la consapevolezza che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo.

In Cina (altro stato in cui la pena di morte è ancora in vigore), le informazioni sull’uso della pena capitale restano un segreto di stato, risulta quindi impossibile valutare l’aumento o la diminuzione del suo utilizzo.

Anche in Bielorussia il clima di segretezza che circonda l’uso della pena di morte fa sì che le esecuzioni non siano note all’opinione pubblica e vengano portate a termine senza alcuna comunicazione.

Per comprendere con profondità l’inumanità della pena di morte è necessario focalizzarsi sul concetto, fondamentale per la nostra esistenza, di dignità umana.
Che cos’è la dignità umana? Uno dei concetti più vaghi e foriero di fraintendimenti. Per comprenderlo meglio, potrebbe essere utile far riferimento ad una massima kantiana:

«ciascuno di noi deve trattare se stesso e tutti gli altri non mai soltanto come mezzo, ma sempre al tempo stesso, come scopo in sé, come fine».

Trattare una persona come fine in sé significa, per Kant, riconoscerle un valore intrinseco, indiscutibile e incondizionato. Vi è implicita l’idea che certi valori fondamentali, come appunto la vita umana, non siano negoziabili. L’uomo non può mai essere strumento di qualcos’altro o di qualcun altro. Dunque ogni uomo, sebbene colpevole di crimini orribili, non può essere utilizzato per raggiungere un obiettivo (ad esempio, non può essere sottoposto alla tortura al fine di ricavare, dalle sue testimonianze, informazioni utili per la sicurezza della comunità) e nemmeno per ottenere giustizia attraverso il sacrificio della sua vita. Nessun uomo può essere strumentalizzato per ottenere qualcos’altro, dal momento che, in quanto essere razionale, ha una dignità e, di conseguenza, una vita dal valore incommensurabile e incondizionato.
Inoltre, citando ancora Amnesty International, la pena di morte, oltre ad essere una pena degradante e disumana, è soprattutto una violazione del diritto alla vita, proclamato in tutte le Carte internazionali e sovranazionali che rappresentano la tutela dei diritti umani.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi nel dicembre del 1948) afferma che:

«Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona».

Ogni persona che viene al mondo è quindi titolare esclusiva di questo diritto alla vita, sacro e inviolabile.

Irene Khan (segretario generale di Amnesty International) definisce la pena capitale «non solo un atto ma un processo, consentito dalla legge, di terrore fisico e psicologico che culmina con un omicidio commesso dallo stato». La mano del boia, infatti, commette essa stessa un delitto nonostante nessun uomo, né come individuo né come rappresentante della comunità, abbia il diritto di togliere la vita ad un altro essere umano, a prescindere dalla gravità delle colpe commesse.
L’esecuzione capitale contravviene, inoltre, al principio secondo cui la finalità della pena non è la vendetta, ma il recupero umano e sociale del colpevole. È compito di tutti noi, infatti, in quanto esseri umani con dignità, aiutare l’altro, anche se colpevole di orribili delitti. La nostra peculiarità di esseri umani ci impone di tendere una mano al prossimo, di non giudicare, ma piuttosto renderlo, o almeno provarci, migliore.
Sarebbe sicuramente più facile eliminare il problema, tagliarlo alla radice ed affermare: “ha sbagliato ed allora merita la morte”. Sarebbe sicuramente più facile, ma senza dubbio controproducente, degradante, disumano e soprattutto contrario alla nostra dignità di esseri razionali.
L’odio è un sentimento facile, così come il desiderio di vendetta, e ci costituisce in quanto esseri primitivi, ma abbiamo costantemente la possibilità di oltrepassarlo, di averne consapevolezza, combatterlo e provare a rendere la nostra società un posto migliore per noi stessi e per tutti gli altri.

Vorrei concludere riportando una citazione di John Coffey, celebre protagonista e condannato a morte del film di Stephen King, Miglio verde (1999). Meglio di qualsiasi altro film, riesce a riprodurre la drammaticità e la degradazione di una punizione così brutale per l’uomo e per la sua dignità.

“Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Stanco di non poter mai avere un amico con me che mi dica dove andiamo, da dove veniamo e perché. Sono stanco soprattutto del male che gli uomini fanno a tutti gli altri uomini. Stanco di tutto il dolore che io sento, ascolto nel mondo ogni giorno, ce n’è troppo per me. È come avere pezzi di vetro conficcati in testa. Sempre. Continuamente. Lo capisci questo?”

Prix
(artwork: Brindisi)