Comizi D’Amore

L’Italia di ieri e L’Italia di oggi.

Le «interviste» di strada sull’amore.

Che cos’è la normalità?

Se qualcuno ci porgesse questa domanda, difficilmente riusciremmo a dare una risposta univoca, condivisa e accettata da ognuno di noi senza perplessità. Qualcuno potrebbe definire la normalità come la caratteristica di qualcosa che si ritiene regolare, consueto e non patologico; qualcun altro, invece, potrebbe intendere con il termine “normalità” il seguire una norma o un ordine già costituito.
Insomma, solitamente, si considera “normale” un individuo che possiede uno stile di vita conforme a tradizioni, abitudini e costumi della società nella quale si trova. In fin dei conti è chiaro che, proprio per l’ambiguità del significato di questo termine, la normalità come criterio stabile, oggettivo e assoluto non esiste; esiste piuttosto come criterio astratto, labile e poco significativo per definire persone e situazioni.

La normalità diventa un criterio ancora più labile quando viene utilizzata di fianco al termine “sessuale”, al fine di creare due categorie di persone ben definite: coloro che sono “normali sessualmente” e coloro che sono “anormali sessualmente”. Ma che cosa significa precisamente “anormale”?

A tal proposito è interessante la risposta di Ungaretti alla domanda posta da Pasolini nel film- documentario Comizi d’amore (1965, diretto da Pier Paolo Pasolini).

Pasolini: «Ungaretti, secondo lei esiste la normalità e l’anormalità sessuale

Ungaretti: «Ogni uomo è fatto in modo diverso nella sua struttura fisica ed è fatto anche in modo diverso nella sua combinazione spirituale, no? Quindi tutti gli uomini sono a loro modo anormali, tutti gli uomini sono in un certo senso in contrasto con la natura, e questo sino dal primo momento: l’atto di civiltà, che è un atto di prepotenza umana sulla natura, è un atto contro natura».

 

Ungaretti e Pasolini. Foto tratta dalle riprese della celebre intervista.

Ungaretti, meglio di chiunque altro, in questa breve risposta riesce a restituire il carattere relativo del termine “normale”, sottolineando come ognuno di noi è, a suo modo, “anormale” per la sua struttura fisica e soprattutto spirituale.

L’uomo è naturalmente incline alla trasgressione, al non rispettare qualcosa di prestabilito. E’ curioso e, costantemente, vuole affermare la sua creatività.

Per evidenziare questa nostra caratteristica esistenziale, possiamo far riferimento al racconto biblico di Adamo ed Eva, nel quale Eva trasgredisce la regola imposta da Dio e mangia la mela, o ancora ad Ulisse che decide di oltrepassare le Colonne d’Ercole suscitando la tracotanza degli Dei. Del resto, a ben pensarci, tutta la civiltà umana è nata proprio da un atto di trasgressione nei confronti della natura, che abbiamo plasmato e modificato secondo le nostre esigenze. Ognuno di noi, costantemente, compie un atto di trasgressione nel momento in cui oppone alla norma e all’ordine, la propria creatività e personalità. La trasgressione intima e personale di Ungaretti, ad esempio, è avvenuta con la poesia, come lui stesso sottolinea all’interno dell’intervista.

La risposta di Ungaretti è sicuramente uno degli spunti più interessanti che è possibile riscontrare all’interno del documentario citato, il cui fine era quello di delineare un ritratto del paese quanto più vicino possibile alla verità.
Quello che ne risulta è un’Italia contraddittoria, ambigua, caratterizzata da una diffusa ignoranza. Pasolini mise in luce l’ipocrisia, che caratterizzava gli strati della popolazione più colta ed il timore dell’italiano medio di affrontare il tema della sessualità, oscurato dai mille tabù che negli anni ’60 dominavano la mentalità comune.

Comizi d’amore venne girato fra il marzo e il novembre 1963. Pier Paolo Pasolini si ispirò al documentario Chronique d’un été (1960, diretto dall’etnologo, sociologo, antropologo nonché regista Jean Rouch), presentando una sua rielaborazione del cinema-verità nella forma di un film-inchiesta atipico. Pasolini decise, dunque, di entrare in campo, microfono alla mano, per intervistare gli italiani di ogni classe sociale, sesso e provenienza, parlando con loro di prostituzione, divorzio, emancipazione femminile e omosessualità. Temi disparati che chiamarono in causa un campione disomogeneo.

Le repliche degli intervistati sono una miscela di contraddizioni individuali e collettive. È evidente che la società dell’epoca, a cavallo tra morale cattolica e nuovi imperativi consumistici, non avesse ancora trovato un modo per parlare pubblicamente di sesso. All’ipocrisia del Nord Italia della classe borghese, il Sud risponde con un conservatorismo che si rifugia in giustificazioni di consuetudine e costumi (si fa così perché si usa). Emblematico il dialogo con un ragazzo in spiaggia: «Tu sei favorevole al divorzio?» «No» risponde il ragazzo «E perché?» «Perché sono calabrese».

Sullo schermo passano dubbi, contraddizioni, misoginia. «In questa società bisogna essere Dongiovanni, se no sei un fallito», dice un militare.  «La donna è concepita come madre di famiglia; non è concepita, che so, per andare a lavorare, la sera uscire sola, andare al cinema, al caffè», risponde un altro calabrese. «Le donne dovrebbero essere un pochettino inferiori rispetto agli uomini, ma non un grande distacco» afferma un contadino emiliano. E ancora un ragazzo milanese che dichiara di provare «ribrezzo» nei confronti degli omosessuali.

I volti, i corpi, gli sguardi e le parole degli intervistati documentano la contraddizione dell’Italia dell’inizio degli anni ’60: quel periodo storico così vicino al ’68 e alla liberazione sessuale, ma ancora dominato da pregiudizi quasi immobili.

È bene sottolineare, però, che quella intervistata da Pasolini è l’Italia che, a partire dagli anni Settanta, comincerà a staccarsi dal modello tradizionale. I primi segnali di questa progressiva separazione sono evidenti anche all’interno del film-inchiesta: la maggior parte dei giovani intervistati sono, infatti, aperti all’introduzione del divorzio e all’eguaglianza tra uomini e donne. La definitiva separazione della morale tradizionale fu sicuramente un processo lento, portato avanti tra mille contraddizioni e a diverse velocità. Abbagli, sebbene sporadici, di questo fenomeno cominciano ad essere evidenti già nei primi anni ’60.

Come già sottolineato, queste «interviste di strada sull’amore» dicono tantissimo sull’Italia di allora, ma soprattutto dicono molto su quella di oggi, figlia naturale di quella di ieri.
Attraverso lo sguardo sul passato, abbiamo la possibilità di comprendere e mettere in luce le contraddizioni dell’Italia di oggi, che risulta spesso incapace di riconoscere con la forma quanto avviene già nella sostanza (come nel caso delle unioni omosessuali o del divorzio breve). Sono passati cinquant’anni da quelle interviste e, sebbene abbiamo perso molti dei tabù dominanti negli anni ’60, molti nodi (come la prostituzione e la discriminazione sessuale) non sono ancora sciolti. Ad alcune questioni se ne sono sostituite di nuove, mentre altre sono ancora in sospeso: basti pensare al forte maschilismo ancora presente in molte zone e all’alto tasso di femminicidio.

«Esaminando l’Italia dal basso e dal profondo ne è venuta fuori un’immagine irrimediabile, fatale, e certo, parziale; perciò l’inchiesta rimane aperta»

Questo è quanto scriveva Pasolini a lavoro compiuto, stupito che al miracolo economico che caratterizzava gli anni ’60 non corrispondesse nel Paese anche un miracolo culturale.

Ancora oggi, in un paese a metà tra l’ignoranza e la chiusura delle vecchie generazioni e la confusione delle nuove, non sarebbe forse lecito, e forse anche necessario, chiedersi quali sarebbero le nostre risposte alle domande di Pasolini sul sesso, e quale ritratto della nostra società si configurerebbe?

 

Prix
(artwork: Brindisi)