I media e le migrazioni

La visione distorta delle migrazioni attraverso i media

 

Gli studenti di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, venerdì 16 novembre, hanno organizzato un’assemblea al fine di sensibilizzare e informare sull’attuale situazione politica riguardo il fenomeno migratorio.

 

Oltre alla testimonianza diretta di Giulia e Alice, due attiviste dell’organizzazione “Mediterranea-Saving humans”(che abbiamo incontrato e intervistato), numerosi sono stati gli interventi da parte di professori ed esperti del campo, che hanno spinto ad un ripensamento non superficiale del fenomeno.

Tra questi, noi di Solpisia, abbiamo ritenuto di particolare interesse l’intervento di Pierluigi Musarò (professore di comunicazione umanitaria presso l’Università di Bologna), volto a sottolineare l’influenza dei mass media sull’opinione pubblica riguardo fenomeni sociali, come appunto le migrazioni.

Da molto tempo, infatti, i media studies analizzano le rappresentazioni dei migranti offerte dai mezzi di comunicazione europei, mettendo in luce le distorsioni, le omissioni e i toni improntati molto più all’emergenza e all’eccezionalità del fenomeno migratorio che alla presa di coscienza della strutturalità dello stesso. Infatti, per quanto le migrazioni costituiscano da sempre un fattore di grande importanza nella dinamica della popolazione mondiale, il dibattito sociale, politico ed economico risente ancora di visioni distorte, più orientate a legittimare la distinzione tra “loro” e “noi”, che non a fornire indicazioni utili e concrete per sviluppare politiche di integrazione e accoglienza.

Notizie e immagini sui migranti diffuse dai media, non solo non descrivono in modo oggettivo il carattere demografico, economico e sociale del fenomeno, ma contribuiscono ad alimentare quei processi di etichettamento da cui consegue, inevitabilmente, una maggiore discriminazione nei confronti dell’altro.

Come sottolineato da Pasolini, in un’intervista del 1971:

«Nel momento stesso in cui qualcuno ci ascolta dal video, ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico».

I mass media, infatti, hanno la capacità di strutturare un rapporto antidemocratico tra chi parla attraverso un video, che è quindi superiore, e chi ascolta, che finisce per sentirsi inferiore e quindi maggiormente influenzabile dalle sue parole. Effettivamente, proprio questo rapporto, che si viene a creare tra chi esprime la sua idea attraverso social e lo spettatore, può essere considerato alla base dell’influenza, sempre maggiore, che i mass media esercitano sulle nostre idee, opinioni e ideologie. A dimostrazione di questa subdola influenza possiamo sicuramente prendere come esempio il fenomeno, quanto più attuale, dei flussi migratori.

Partendo dal presupposto che ciò che caratterizza in particolar modo gli elettori è il fatto che essi votino “con la pancia” e che si lascino guidare, spesso involontariamente, dalle emozioni che può suscitare in loro un determinato problema, un determinato discorso o un determinato fatto di cronaca, è chiaro che il discorso politico, e di conseguenza anche i media, fanno leva su questa sensibilità che caratterizza l’elettorato. Questo appare tanto più chiaro quando pensiamo, ad esempio, al concetto di “confine”. Il confine, infatti, non esiste nella realtà e, come sottolineato dal professor Pierluigi Musarò, è più giusto definirlo come «un fatto sociale con una dimensione spaziale».

Il confine, infatti, è di per sé effimero, immaginario, non esiste in natura, è un concetto che esiste solamente nella mente dell’uomo. Tuttavia queste demarcazioni artificiali, non reali, ma immaginarie, create dall’uomo stesso, hanno prodotto e continuano a produrre degli effetti nella politica e nel modo di intendere il mondo che detengono un’enorme influenza nella società.

Nel 2011, per la prima volta, l’influsso delle primavere arabe coinvolge l’Italia. In seguito a ciò Maroni e Berlusconi dichiarano lo stato umanitario di emergenza. Due anni dopo, nel 2013, qualcosa cambia: il 3 ottobre 2013 un’imbarcazione libica affonda provocando 368 morti. Per la prima volta cadaveri, corpi esanimi e bare vengono messe davanti agli occhi dell’opinione pubblica. Questa tragedia scatenò una serie di reazioni da parte della classe politica italiana: l’allora Presidente del Consiglio, Enrico Letta, su Twitter, definì il naufragio della nave libica “una tragedia immensa”; il Consiglio dei Ministri proclamò una giornata di lutto nazionale per onorare le vittime del naufragio e l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dichiarò di provare vergogna per quanto successo e sottolineò la necessità di rivedere le leggi anti-accoglienza. Nel 2013, sull’onda delle emozioni che queste immagini di cadaveri e bare avevano suscitato, venne lanciata l’operazione “Mare Nostrum”.  Mare Nostrum venne definita “un’operazione militare umanitaria“, la cui finalità era quella di prestare soccorso ai migranti prima che potessero ripetersi altri tragici eventi, come quello di Lampedusa. L’operazione Mare Nostrum, basata fondamentalmente “sull’empatia”, permise alle persone di vedere, con i loro occhi, cosa accadeva nel mar Mediterraneo, mettendo in luce la difesa dei confini nazionali da parte dei militari, ma evidenziando allo stesso tempo l’aspetto umanitario della missione. Si trattò sicuramente di un’operazione militare molto ambigua. Questo aspetto appare evidente già dalla definizione di “organizzazione militare umanitaria”, che è di per sé un’espressione ossimorica, dal momento che lega insieme due parole (“militare” e “umanitaria”) che sono tra di loro antitetiche. Inoltre, come sottolineato sempre dal professor Musarò, il pronome possessivo «nostro» inquadra il Mediterraneo come un’area di possesso e di controllo europeo.

Osservando le immagini scattate dai soldati presenti nelle navi, appare evidente come queste evochino nell’opinione pubblica un sentimento di solidarietà nei confronti dei militari impegnati nella missione e un sentimento di compassione per i migranti, che appaiono come “l’altro” che è diverso da noi, ma che dobbiamo salvare per benevolenza.

Osservando il video ufficiale dell’operazione (https://www.youtube.com/watch?v=H7LWma67WAA), questo aspetto, che caratterizza il modo in cui viene raccontata la missione all’opinione pubblica, appare ancora più evidente.

Nella prima parte del video, attraverso l’orrore e il turbamento che suscitano in noi le immagini presentate, siamo spinti a farci testimoni di questa emergenza. Nella seconda parte (in cui domina un adrenalinico sottofondo musicale), invece, viene sottolineato l’eroismo dei soldati che sfidano il mare per salvare vite umane. Il finale del video, poi, come sottolineato dal professore, crea un contesto moralistico nel quale l’operazione militare assume i toni di una benevolenza umanitaria. Nel video ufficiale, inoltre, non viene espresso alcun riferimento storico o politico al fenomeno migratorio che in qualche modo consenta allo spettatore di contestualizzare il tutto e fornire una visione concreta e reale della questione, nonché una possibile proposta di soluzione. Così come non viene evocato alcun riferimento all’idea di diritto e di dignità umana che ognuno di noi, e quindi anche il migrante, possiede. La questione dei flussi migratori, infatti, viene riletta come «un tragico scherzo del destino».

I migranti vengono rappresentati come protagonisti di una crisi nata dal nulla o come soggetti costretti ad esporsi al pericolo e quindi da salvare; noi, invece, siamo “gli eroi”.

Andando avanti nel tempo arriviamo al 2016, anno in cui le navi delle Ong (in seguito al vergognoso accordo del 18 marzo 2016 tra l’Unione Europea e la Turchia per il controllo della flussi), iniziarono ad andare direttamente nel mediterraneo: già nel 2017 quasi il 40% delle vite salvate nel Mediterraneo era opera delle Ong. Nello stesso periodo però, paradossalmente, iniziano una serie di attacchi mediatici, accompagnati da una propaganda negativa, nei confronti di queste organizzazioni non governative. La politica e i media, che, come già sottolineato, hanno il grande potere di influenzare l’emotività e la sensibilità dell’elettorato, irrompono violentemente nella questione.

Basti pensare alla definizione “taxi del mare”, utilizzata da Di Maio nei social, per descrivere le Ong. Non è un caso che utilizzi la parola “taxi”: Di Maio, infatti, fa riferimento ad un mezzo di trasporto confortevole, costoso che non tutti possono permettersi; i taxi rappresentano un lusso, non qualcosa di strettamente necessario e legato alla dignità umana.

Minniti, inoltre, nel 2017, crea un “codice di condotta” che regolamenta, e di fatto limita, l’operazione delle Ong. Solamente quattro Ong firmano l’accordo e di conseguenza i media, continuando a diffondere una propaganda negativa di queste organizzazioni non governative, riportano, in maniera non critica, l’ipotesi di possibili accordi tra le Ong e gli scafisti. L’opinione pubblica progressivamente cambia. Cambia anche, se non soprattutto, perché Di Maio e Salvini si sono presentati all’elettorato con la proposta di chiudere i porti, alimentando un odio e un allarmismo inutile nei confronti del fenomeno e sottolineando la presenza di un’emergenza che effettivamente non c’è (come dimostrato dalle statistiche presenti nel sito Openmigration.org). A dimostrazione di quanto i media e i discorsi politici facilmente influenzino la “pancia” dei votanti, basti pensare che quest’anno in Spagna si sono verificati più del doppio degli sbarchi rispetto all’ Italia, ma nel territorio spagnolo è completamente assente il clima teso e anti-accogliente che caratterizza il contesto italiano di questi ultimi anni.

Una delle conseguenze più evidenti che l’effetto mediatico ha provocato è stato quello di spostare il confine dell’emergenza. Se infatti, in un primo momento, tale confine si trovava a Lampedusa, e in un secondo momento nel mezzo del Mediterraneo, ora è, invece, in Libia.

Uomini innocenti continuano a morire ogni giorno nel Mediterraneo, ma adesso muoiono vicino alla Libia, distanti da noi, e quindi la questione è fuori dal nostro interesse. Si tratta di una situazione che non suscita in noi alcun turbamento, perché è lontana, distante e per questo non ci interessa; noi non siamo più i responsabili, adesso la nostra coscienza è pulita, la responsabilità ora è della Libia. Non si è trattato, dunque, di risolvere un problema, ma piuttosto di nasconderlo e spostarlo lontano dai nostri occhi, fingendo che non esista più e quasi dimenticandolo. I morti adesso sono diventati invisibili, addirittura accusati di fake news.

Per comprendere, ancora una volta, come il discorso politico e i media modifichino in poco tempo l’opinione delle masse, possiamo far riferimento a due foto che ritraggono due diversi bambini morti in un naufragio:

 La prima foto è quella che ritrae il corpo senza vita di Alan Kurdi, un bambino siriano di tre anni, morto per annegamento nel 2015 e divenuto simbolo della crisi europea dei migranti:

il corpo senza vita di Alan Kurdi, nello scatto di Nilüfer Demir.

Il bambino e la sua famiglia erano rifugiati siriani che stavano tentando di raggiungere l’Europa. La fotografia è stata scattata dalla giornalista turca Nilüfer Demir, e si è rapidamente diffusa in tutto il mondo, scatenando numerose risposte internazionali con conseguenze anche sulle politiche degli Stati europei.

Reazioni molto diverse scatenò, invece, la foto che ritrae il corpo esanime di uno dei tre bambini che persero la vita in seguito al naufragio del 27 giugno 2018, avvenuto al largo della Libia:

La foto dell’agenzia francese France Presse (AFP), che testimoniò le operazioni di recupero dei cadaveri dei neonati.

L’immagine non solo non scatenò reazioni di compassione, turbamento, sconforto e indignazione, ma fu piuttosto accusata di essere una fake news, un fotomontaggio ad opera delle Ong. Iniziò, infatti, a circolare online un’immagine falsa che avrebbe dovuto, in qualche modo, confermare che la foto del bambino fosse in realtà un fotomontaggio, costruito in uno studio posa con un bambolotto.

La bufala circolata online, che “dimostrava” il presunto fotomontaggio.

 

La potenza dei media è inimmaginabile ed al contempo evidente, sebbene non tutti siano, purtroppo, consapevoli di come questi abbiano contribuito a trasformare il Mediterraneo in un muro: un muro invalicabile, alto, immenso, che ci chiude in noi stessi, che ci tappa gli occhi, che ci impedisce di sentire le grida di uomini, donne e bambini che, coraggiosi, hanno tentato, e tentano ogni giorno, di rivendicare la loro dignità di essere umani.

Noi tutti, prendendo consapevolezza di questa muraglia che si sta innalzando sempre di più nel mare, abbiamo la reale possibilità di fare qualcosa. Abbiamo la possibilità tutti i giorni, anche nel nostro piccolo, di cambiare la situazione e tornare uomini; forse, però, anziché darsi da fare con impegno e costanza per aiutare l’altro, è più facile non ascoltare: forse è più facile lasciarsi guidare dall’insignificante brusio di fondo che caratterizza la situazione storica nella quale viviamo, mentre attendiamo un altro like alla nostra ultima foto pubblicata su Instagram.

Prix

(ph: LaCirasa)