La perdita di immaginazione

“L’umanità si trova nella condizione di quel condannato a morte delle Mille e una notte, al quale fu comunicato che sarebbe stato graziato se avesse consumato le cento pagnotte che gli erano state messe davanti. Naturalmente egli non era in grado di avere cento appetiti, e ciò ebbe le sue conseguenze. Solo che oggi siamo noi stessi a metterci davanti cento pagnotte e che non ce la facciamo a consumarle.”

Guther Anders, L’uomo antiquato

 

Guther Anders, nato nel 1902 a Bratislava e morto a Vienna nel 1992, osserva con i suoi occhi quegli avvenimenti che dai primi decenni del ‘900 fino alle soglie del XXI secolo hanno cambiato profondamente la fisionomia della società: le due guerre mondiali, i campi di sterminio nazisti e la bomba atomica. È proprio a partire da questi eventi che elabora una riflessione filosofica in cui è centrale l’analisi del rapporto tra l’uomo contemporaneo e la tecnica. Secondo Anders, oggi viviamo in un mondo in cui la macchina e gli oggetti prodotti in serie, e non più l’uomo, sono diventati protagonisti della storia. La tecnica non si configura più come un oggetto al servizio dell’uomo, ma è l’uomo stesso che si è progressivamente e inconsapevolmente sottomesso alla tecnica. L’oggetto che meglio esplica questa situazione è per Anders la bomba atomica. Questo strumento, sottolinea Anders, rappresenta l’oggetto che più di ogni altro ha alterato la condizione dell’esistenza umana dal momento che ha posto l’uomo nella condizione di poter “produrre la propria distruzione”. La terza rivoluzione industriale è la rivoluzione nella quale la produzione regna sovrana persino sui criteri morali. Infatti la regola fondamentale di questa rivoluzione asserisce che ciò che può essere prodotto deve essere prodotto e di conseguenza ciò che può essere prodotto deve essere anche utilizzato. Il mondo si sta sempre più configurando come il luogo in cui l’essere umano è costretto a vivere in qualità di essere totalmente inadeguato ai nuovi tempi. L’uomo, sviluppando al massimo il suo sapere tecnico, ha creato qualcosa di maggiormente perfetto, di eterno, che però sta sfuggendo alla sua presa, senza che egli se ne rendi effettivamente conto. Si tratta della creatura che si ribella al creatore, del mostro che finisce per ribellarsi a Frankestein. Le tre rivoluzioni industriali hanno di fatto portato al superamento dell’essere umano. Una facoltà in particolare, secondo l’autore, risulterebbe compromessa: l’immaginazione. Ciò che Anders intende per immaginazione coincide sostanzialmente con l’abilità di prevedere le conseguenze derivanti dell’uso dei prodotti creati. L’uomo è praticamente cieco di fronte ai prodotti della tecnica e, al tempo stesso, si rapporta con degli apparecchi “muti”: la loro forma esteriore non comunica la pericolosità di cui si fanno portatori. Nell’era industriale qualsiasi riflessione circa gli effetti prodotti dagli oggetti di consumo costituisce un indugio inammissibile. Nell’era della velocità, del progresso, dove ogni cosa deve essere fatta nel minor tempo possibile, qualsiasi riflessione appare un ostacolo al progresso e al conseguente raggiungimento della felicità. Ma siamo sicuri che al progresso segua necessariamente la felicità? Sappiamo realmente che cosa sia la felicità? E si tratta di una felicità condivisa o di una felicità elitaria? Siamo sicuri che il progresso scientifico, senza una presa di coscienza e consapevolezza, si trasformi necessariamente in qualcosa di positivo? Forse ognuno di noi singolarmente, e poi come comunità, dovrebbe rispondere a queste domanda prima di procedere verso qualsiasi direzione.

Siamo incapaci di prevedere le conseguenze ci ciò che viene da noi creato, abbiamo perso l’immaginazione e di conseguenza non riusciamo più a definire con nettezza ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, il bene dal male, la felicità dal nulla. Ci siamo messi di fronte cento pagnotte che però, proprio per la nostra costituzione di esseri umani, non siamo in grado di mangiare. Per quanto ci risulti difficile, è necessario prendere atto della nostra limitatezza, dei nostri limiti epistemologi e fermarci, provando a recuperare quell’immaginazione che ormai appare così lontana da noi.

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(ph: Svario)